La furia di Elektra

Splendido Strauss firmato da Chéreau alla Scala

Recensione
classica
Teatro alla Scala Milano
Richard Strauss
18 Maggio 2014
A sipario chiuso il sovrintendente Lissner è uscito in proscenio per ricordare l'amico Patrice Chéreau, scomparso lo scorso ottobre, e le sue regie scaligere, a partire dalla Lulu del 1979 a Da una casa di morti, di tre anni fa. Ci mancherà tantissimo Chéreau e mancherà alla Scala, specie dopo questa splendida Elektra (ripresa dal suo assistente Vincent Huguet), anche perché ha dato un esempio di cosa dovrebbe essere una messinscena lirica. Non ha inventato alcun intreccio parallelo per creare divagazioni a effetto, né stravolto l'impianto drammaturgico a scopo "vetrina", ma ha calibrato meticolosamente la gestualità degli interpreti sulla musica e sul testo, analizzando ogni singolo personaggio in relazione con gli altri, in assoluto rispetto di Strauss-Hoffmannsthal; arricchendone però il tessuto, dando rilievo e giustificazione alle forze che legano e dividono le protagoniste: Evelyn Herlitzius, un'Elektra selvatica e violenta, ma anche beffarda quando gioca alla gatta col topo con la madre o con Egisto; Adrianne Pieczonka una Chrysothemis capace di accattivanti tenerezze e Waltraud Meier tutt'ora in forma nel panni della gran dama Klytämnestra, tormentata e impotente. Le stesse del cast della prima al Festival 2013 di Aix en Provence, mentre Orest qui è interpretato dal bravo e statuario René Pape. Straodinaria la direzione di Esa-Pekka Salonen, incisivo, ludicissimo, capace di tenere alta la tensione come anche d'improvvise dolcezze, con un'orchestra in ottima salute (difficile capire perché talvolta non sia all'altezza, pur con lo stesso direttore). La scenografia essenziale è firmata da Richard Peduzzi, storico complice di Chéreau, che ha progettato un muro spoglio con al centro un abside per l'entrata del palazzo e a sinistra un portone scorrevole come di un garage dov'è segregata Elektra. Tra i tanti momenti memorabili (Chéreau è sempre stato maestro nel sottolineare i dettagli, come quando il suo Tristan s'era chinato a baciare l'abito di Isolde dopo aver bevuto il filtro): Elektra che abbraccia le gambe della madre con una disperata richiesta d'amore (sempre negato), per poi trasformarsi di colpo in profetessa belluina; come pure l'agnizione di Orest con la servitù fedele che lo circonda di affetti o le tre invocazioni di Elektra sul suo nome, la prima come un fulmine che la riduce quasi corpo morto, le altre con uno struggente ritorno alla vita. Difficili da dimenticare. La mattanza finale avviene in scena, Klytämnestra vi è trascinata già cadavere e deposta su una specie di ara sacrificale (il rituale si compie così), mentre l'esecuzione di Aegisth è affidata da Orest al fido Precettore. Resta comunque un interrogativo perché Elektra, che già aveva accennato alla sua danza da menade, nel finale la riprende su un ritmo spastico ma non stramazza morta. Si siede quasi imbalsamata. Al termine grandi applausi per tutti, ovazioni per la protagonista e il direttore d'orchesta, con la platea del Piermarini solitamente pigra, che si è alzata in piedi per una standing ovation. PS. Lo spettacolo, nato nei laboratori scaligeri dell'Ansaldo, è stato coprodotto col Festival di Aix en Provence, il Metropolitan di New York, l'Opera di Helsinki, la Staatsoper di Berlino e il Liceu di Barcellona.

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