JazzONZE+, jazz di acqua dolce
Trentacinquesima edizione per il festival di Losanna, in cerca del "jazz"
La rassegna JazzONZE+ (dal nome del famigerato accordo dissonante di undicesima aumentata) si è mantenuta nel tempo fedele alla linea, evidenziando una programmazione in cui, almeno nel cartellone principale, il termine “jazz” è da intendersi nel suo canonico significato, o quasi. Un proposito ormai difficile da mantenere, tra derive e incroci stilistici di ogni tipo e assenza di nomi di riferimento in grado di riempire spazi da centinaia se non migliaia di posti.
A Montreux, senza andare troppo lontano, hanno da tempo alzato bandiera bianca: nell’ultima edizione estiva Herbie Hancock ha fatto la figura del panda, pressoché unico rappresentante di categoria – aggiungiamoci Gregory Porter e Nubya Garcia – al cospetto della settantina di artisti invitati (no, i Måneskin non mancavano, ovvio).
Si spiega così l’interlocutorio comunicato stampa di chiusura di JazzONZE+ che, nell’annunciare 4500 spettatori complessivi, il doppio dello scorsa edizione ancora vessata dalle norme pandemiche, esprimeva insieme un velato disappunto per alcuni spettacoli non da tutto esaurito. D’altro canto sul Lago Lemano spira ancora forte il vento calvinista, il senso pratico vince su tutto, e quando si organizza qualcosa è imperativo dare in primo luogo soddisfazione al box office.
Ad aprire e chiudere JazzONZE+ sono stati rispettivamente Sofiane Pamart, nella chiesa di San Francesco, e Abdullah Ibrahim, esibitosi nella sala Paderewski del Casino de Montbenon. Sono opposti che non si toccano, ciascuno con il suo pubblico ben distinto, mosso da esigenze d’ascolto incompatibili. Entrambi sold out, i loro concerti sono la plastica dimostrazione del sempiterno potere di attrazione delle leggende, ormai quasi del tutto estinte, purtroppo per i promoter, e insieme dell’esistenza di musicisti espressione del tam tam dei social e adattissimi a una folla interessata a ricevere solo emozioni istantanee e di grana grossa, prive di un qualsivoglia filtro culturale.
Caratteristica peculiare di JazzONZE+ è l’obbligo per lo spettatore di dover compiere scelte radicali nei tre giorni centrali della rassegna, perché con sei/sette live quotidiani, talvolta sovrapposti in capo o in coda, altro non è dato fare. Così posti di fronte al dilemma Avishai Cohen (nel senso del trombettista) versus Makaya McCraven, non abbiamo esitato a scendere i gradini che conducevano all’accogliente cave denominata Espace Jazz per verificare le qualità del nuovo messia.
McCraven lo “scienziato del beat” è il nome del momento e tuttavia, tornando al discorso d’inizio, ha attirato un centinaio scarso di paganti, a riprova dell’impossibilità ai nostri giorni di unire musica contemporanea di ricerca e risultati al botteghino (meglio è andata al C2C di Torino). Se la punta avanzata della sperimentazione di Chicago ottiene un risultato così scadente sul piano dei biglietti staccati, per di più in una piazza ricettiva, eclettica e giovane come Losanna, diventa difficile imputare al JazzONZE+ mancanza di coraggio nelle scelte del cartellone, un appunto che verrebbe istintivo fare.
Dal canto suo McCraven non ha fatto rimpiangere il prezzo del tagliando e alla testa di un robusto quartetto (con Marquis Hill, Matt Gold e l’ottimo Junius Paul) ha regalato un set intenso e tosto, di gruppo, dettato da linee (poli)ritmiche occhieggianti l’universo hip hop. Nel ripescare temi da In These Times, Universal Beings e Deciphering The Message è stato però costretto a distaccarsi alquanto dagli originali, multiformi e zigzaganti, perché com’è noto si tratta di incisioni fondate in buona misura su un taglia e cuci da studio, impossibile da riprodurre in fotocopia dal vivo.
La sezione per così dire “giovani”, ospitata alla BCV Concert Hall, ha messo in evidenza il sax alto di Immanuel Wilkins, attento ad agire entro i confini delimitati dall’ortodossia jazz ma anche capace, attraverso ampie digressioni dai temi di partenza, di giungere a una dimensione metafisica non di maniera. Suoni di un certo interesse ha regalato la batterista Jas Kayser, tecnica indiscutibile e spiccato senso della misura appresi dai maestri Terri Lyne Carrington e Danilo Perez, che in quartetto ha espresso una chiara propensione verso il nu-afrojazz della scena inglese da cui proviene. Al momento non è ancora troppo disinvolta nelle vesti di bandleader e compositrice, però il tempo è dalla sua parte.
Altro giro e altro quartetto, con a capo il pianista colombiano Jesus Molina, un acrobata della tastiera da mezzo milione di fan su Instagram, ben inserito nel panorama latin e fusion. Per la verve da entertainer e per come sa inanellare brani propri e citazioni da musiche altrui lo potremmo paragonare al nostro Bollani, ma l’assenza di uno stile davvero personale limita inesorabilmente il giudizio.
Tra gli ospiti collocati in prime time al Montbenon c’erano i vocalist Gretchen Parlato e Kurt Elling. La signora non manca di estimatori in virtù di un timbro esile e di inflessioni incantatorie che possono rievocare la memoria di Astrud Gilberto. La sua performance, nonostante la bravura nell’entrare in dialogo serrato con il suo trio, talvolta sfruttando un vocalese dalle tinte pastello, quasi timido, è sembrata però un poco meccanica e soprattutto priva di guizzi sorprendenti. Tutto un altro mondo quello di Elling, crooner al solito disinvolto nel proporre una scaletta, in parte ricalcata sul recente SuperBlue, sbilanciata verso un funky-soul brillante, marcato da continui cambi di passo e da un accorto impiego dello scat. Una bella mano l’ha ricevuta dal chitarrista-bassista Charlie Hunter, vero esperto in materia, dalle tastiere di Kenny Banks Jr e da Marcus Finnie (batteria).
Infine, un accenno a “quelli della notte”, presenze laterali non legate a dinamiche jazzistiche strette. James BKS si presentava come figlio biologico di Manu Dibango, ma dell’augusto genitore musicalmente è una pallida copia e ha faticato anche solo a smuovere al ballo l’uditorio. Azione riuscita invece benissimo ai lionesi The Buttshakers (nomen omen), che hanno riavvolto il nastro proponendo vagonate di soul, funk e r’n’b al calor bianco in ruvido stile anni ‘60/’70 grazie a una potente sezione fiati e alla presenza scenica della cantante statunitense Ciara Thompson.
Pressoché nei medesimi ambiti stilistici, benché più cool e modernista, si è situato lo show ai Docks di Adi Oasis (FKA Adeline), bassista e vocalist dall’emissione calda e groovy e dal look eccentrico, mentre Sirens Of Lesbos, sorprendente band svizzera multietnica con in prima linea le sorelle Jasmina e Nabyla Serag, ha offerto un ragionato e fluido mix di soul, soft hip-hop e pop dalle piacevoli coloriture world.
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