Il sangue della ninfa
Ad Amsterdam Romeo Castellucci mette in scena “Le lacrime di Eros” su un’antologia di musiche del tardo rinascimento scelte da Raphaël Pichon per l’ensemble Pygmalion
Risale al 2019 al Festival di Aix-en-Provence l’incontro fra Raphaël Pichon e Romeo Castellucci: allora il risultato fu il felice allestimento del Requiem di Mozart, lavoro di per sé irrappresentabile ma non certo per l’estro creativo del regista. Il secondo frutto teatrale della loro nuova collaborazione vede la luce ad Amsterdam sul grande palcoscenico dell’Opera nazionale olandese. Georges Bataille fornisce l’ispirazione per l’intrigante titolo quasi ossimorico – Le lacrime di Eros, come quello dell’ultimo saggio del filosofo francese – ma anche la trama drammaturgica sviluppata da Piersandra Di Matteo per legare i fili dell’articolata antologia fatta di musiche, per lo più vocali, di compositori italiani del Cinquecento (Alessandro Striggio, Cristoforo Malvezzi, Luca Marenzio, Jacopo Peri, Giulio Caccini, Emilio de’ Cavalieri e altri ancora), tutti legati allo sviluppo dell’opera, fino a lambire il Monteverdi madrigalista e, per chiudere il cerchio col presente, con le elaborazioni elettroacustiche di Scott Gibbons, storico collaboratore del Castellucci soprattutto nel suo teatro di parola.
La declinazione dell’amore scelta per questo spettacolo è (naturalmente) quella del tragico, come quella dell’amore fra Orfeo ed Euridice, la coppia operistica primigenia, che è anche l’archetipica coppia protagonista del racconto scenico scandito in sei “Libri” (tre in meno delle raccolte di madrigali monteverdiani) e un “Introitus”, che si apre con la domanda “Dove sei?”: la ninfa/Euridice si svuota del suo sangue attraverso una cannula nel braccio (“quelle lagrime tue son il mio sangue” recita un verso del madrigale “Anima mia, perdona” dal IV Libro monteverdiano) e si canta dei tormenti di un pastore per la “ninfa sorda al mio lamento”. Non è chiara la linea narrativa che attraversa i sei Libri, ma è piuttosto un procedere per contrasti e contrapposizioni. Il Libro I (Amor machina) è quello nel quale il canto è più festoso e sensuale ma l’immagine è quella di un apparato ricoperto da un agglomerato corpi (un’installazione realizzata in collaborazione con l’artista “post-umanista” Frederik Heyman) che riassume l’atto erotico alla sua nuda essenza di un meccanico totem. Contrasto è anche quello fra la chiusa dionisiaca sull’invocazione “Bacco, Bacco, E U O È!” del Ballo di Satiri e Baccanti di Francesco Corteccia immersa nella luce rossa come il sangue e il Libro che segue (Amor), che rappresenta la variegata silloge dei consueti tormenti d’amore di pastori e ninfe attraverso una galleria di strumenti di tortura tutt’oggi largamente utilizzati (e uno stilizzato waterboarding illustra non senza una punta di gelido umorismo i versi “… volgi pietosi gl’occhi / a l’infelice gelo, / a te dimand’aita / e piang’e plora …” musicati da Luca Marenzio). Nel Libro III (Aqua Amoris) piove il sangue della ninfa sul poeta mentre innalza il suo lamento in versi: “Quai pianti, e quai lamenti / versa il tuo caro, ohimè, dal cor interno, / Lagrimate al mio pianto, ombre d’inferno” messi in musica da Jacopo Peri, e la stessa ninfa lava il suo sangue con un drappo bianco con cui si coprirà il capo. È quasi un intermezzo il brevissimo Libro IV (Locus Solus) nel quale la scena vuota accoglie la coreografia di due lavapavimenti meccaniche che eliminano il sangue della ninfa accompagnate dai suoni elettronici di Scott Gibbons. Interamente monteverdiano è il Libro V (Venum in Parola) aperto da un ritornello del Ballo delle ingrate che accompagna l’apparizione di un serpente, l’origine del dolore di Orfeo, portato in scena da quattro donne, e chiuso dai versi della Lettera amorosa dal Settimo Libro dei Madrigali intonati quasi sottovoce da Euridice. Il verso “Stravaganze d’amore” apre e chiude l’ultimo Libro (Contra Mondo): nell’apertura quel semplice verso viene rifratto nell’eco deformante dell’elettronica di Gibbons, aggiornamento digitale delle sperimentazioni analogiche barocche monteverdiane, e ancora alle arcane sonorità di Gibbons spetta la chiusa, che segue di nuovo quel verso che Emilio de’ Cavalieri mette alla fine del suo “O che nuovo miracolo”. E torna ancora il contrasto violento – e questa volta spiazzante, specie per quello che sembra un beffardo sghignazzo in faccia a chi nell’amore ancora crede – fra quei canti (Emilio de’ Cavalieri ma ancora il Monteverdi di “Zefiro torna” dagli Scherzi Musicali) che sublimano l’amore come esperienza mistica, e l’immagine dell’incontro dei due amanti arrivati con le proprie auto e subito all’opera per il suicidio reciproco. Come in un macabro rito, i due estraggono i tubi flessibili dal veicolo di lui, li collegano al tubo di scappamento, li sigillano nell’abitacolo, avviano i motori e si abbandonano all’opera mortifera dei gas di scarico, ognuno nella propria vettura.
Come sempre, la confezione della macchina scenica firmata interamente da Romeo Castellucci è gelidamente perfetta: una scatola dalle bianchissime pareti bianche, che si tingono di rosso solo nell’intermezzo del Libro IV, per poi tornare bianche nel raggelante finale. Solo pochi oggetti, icone desacralizzate di una rappresentazione dissacrante del soggetto che più di ogni altro ha accesso la scintilla creativa di poeti e musicisti.
Filologicamente rigorosa anche la macchina musicale guidata con magistrale perizia stilistica da Raphaël Pichon, che per l’occasione aggiorna il consueto strumentario barocco del suo ensemble Pygmalion al mondo musicale tardo-rinascimentale fatto di lire da braccio, violoni, dulciane, cromorni, cornetti, sackbut, schalmei e cornamuse accanto ai più consueti violini, tiorbe, arpe barocche e flauti a becco, che solo a vederli è uno spettacolo quanto ascoltare quegli strani impasti di suoni di un passato di cui molto è ancora da esplorare. Uno spettacolo è anche il coro di Pygmalion, in realtà un ensemble di solisti di esemplare affiatamento e di notevoli capacità attorali e coreutiche. Alcuni, e cioè Camille Chopin, Perrine Devillers, Guillaume Gutierrez, Constantin Goubet e Renaud Brès, prestano anche corpo e voce ai madrigali dei pastori, e non sfigurano affatto, anzi completano e sostengono, le voci e i movimenti dei quattro solisti ufficiali che sono Jeanine De Bique, ninfa/Euridice di toccante introspezione, Gyula Orendt, Il poeta/Orfeo commovente rappresentazione del dolore universale, Katia Ledoux, una messaggera di partecipata emotività, e Zachary Wilder, un pastore stilisticamente impeccabile.
Esaurite tutte le cinque repliche del cartellone. Pubblico attento e empatico. Risposta calorosa con applausi e chiamate.
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Apprezzate le prove di Chailly, Netrebko, Tézier e del coro, interessante ma ripetitiva la regia di Muscato