Il Flauto magico visto con lo sguardo dei bambini

Arte diffonde in streaming l’opera mozartiana in una recente produzione della Semperoper di Dresda

Die Zauberflöte
Die Zauberflöte
Recensione
classica
Semperoper di Dresda
Die Zauberflöte
05 Aprile 2021

Se una tendenza si può cogliere nella produzione de Die Zauberflöte andata in scena per una recita alla Semperoper di Dresda già nello scorso autunno, appena prima della chiusura dei teatri in Germania causa pandemia, e ripresa per una sola replica per la diffusione in streaming dell’emittente franco-tedesca Arte (visibile anche attraverso il sito del gdm), è il ritorno alla dimensione più genuinamente favolistica. Dopo decenni di trattamenti a base di simbologie massoniche più o meno leggibili oggi o di esegesi attualizzanti più o meno forzate, sembrano imporsi sempre di più letture che insistono sulla dimensione più ingenua da racconto per bambini di Mozart e Schikaneder. Se è vera la definizione di Bruno Bettelheim sul messaggio trasmesso ai bambini da ogni favola, cioè “una lotta contro le gravi difficoltà della vita è inevitabile, è una parte intrinseca dell’esistenza umana, che soltanto chi non si ritrae intimorito ma affronta risolutamente avversità inaspettate e spesso immeritate può superare tutti gli ostacoli e alla fine uscire vittorioso”, Die Zauberflöte non fa certo eccezione.

Lo spettacolo firmato da Josef E. Köpplinger racconta una favola che è appunto quella delle avversità affrontate da quel ragazzo che all’apertura del sipario abita una scena vuota che, poco a poco, si anima di sipari trapuntati di stelle e di immagini animate e coloratissime delle fantasiose immagini dei video realizzati da Walter Vogelweider, unica sostanza spettacolare in un impianto scenografico di funzionale semplicità. Una fune gialla, come il sole, e una azzurra, come la luna, animate come nel teatro nero da figure quasi invisibili nella fantasia del ragazzo diventano il serpente che insegue la sua proiezione, cioè il principe Tamino, come lui vestito con jeans, felpa e joggers ai piedi. Come Tamino assiste e attraversa le difficoltà disseminate nel suo cammino dalla Regina della Notte, da Sarastro e dagli altri personaggi delle loro corti, tutti vestiti da Dagmar Morell con la rutilante fantasia che si riserva ai personaggi delle favole. Solo Pamina con la sua chioma rosa appartiene piuttosto al mondo del ragazzo, ed è infatti grazie a lei che quel ragazzo affronta risolutamente gli ostacoli ed esce vittorioso nel percorso di crescita che si conclude, più che con la sconfitta del bene sul male (quello accade solo nelle favole), con la riconciliazione degli opposti. Un po’ statico nella realizzazione ma verosimilmente a causa del vincolo di distanziamento imposto agli interpreti, lo spettacolo ha comunque il pregio di una certa coerenza e chiarezza di lettura, senza far mancare i tradizionali passaggi topici e le immancabili gag (di Papageno soprattutto) che fanno di quest’opera un classico inossidabile per bambini e non solo specialmente nei paesi di lingua tedesca.

Inutile dire che dopo 1270 rappresentazioni a Dresda dal 1793, quest’opera mozartiana – in questa edizione sfrondata di qualche lungaggine dei recitati e alleggerita da qualche taglio – è scritta ormai nei geni del teatro e della sua orchestra, la Staatskapelle, diretta per l’occasione dal rodato mestiere di Christoph Gedschold, poco incline a tempi brillanti ma piuttosto funzionale. Cast vocale ben assortito, che vanta le presenze di lusso di René Pape, un Sarastro dagli accenti nobili ma piuttosto anodino sul piano interpretativo, e Klaus Florian Vogt, un Tamino francamente troppo maturo e poco interessante anche vocalmente. Più riuscite le prove degli altri da Evelin Novak, una Pamina brillante e di giovinezza radiosa, a Nikola Hillebrand, una Regina della Notte fin troppo concitata ma vocalmente autorevole, a Menna Cazel, Anna Kudriashova-Stepanets e Michal Doron, un trio di damigelle di grande classe vocale e attoriale. Bene anche Sebastian Wartig, un Papageno divertente e spiritoso come impone la tradizione, e Julia Muzychenko, una spiritata Papagena. Più che la pattuglia di sacerdoti e armigeri della reggia di Sarastro assicurata dalla solida professionalità delle voci dell’ensemble della Semperoper, si fanno notare il Monostatos nero nell’anima ma non nella pelle di Aaron Pegram sfrondato di ogni eccesso farsesco e qui insolitamente serio, e i tre geni di Ludwig Haenchen, Anton Kempe e Errel Rodzinka del Kreuzchor di Dresda.

Se qualcosa attutisce lo straniamento da vuoto di pubblico di questa ennesima produzione a porte chiuse è l’immagine dei sontuosi stucchi dorati della gloriosa sala di Gottfried Semper che, più ancora che la scena, riflette e moltiplica l’incanto di quel gioco di specchi che riempie lo sguardo di quel ragazzo, trionfante alla fine davanti al sipario con il flauto al neon stretto nella mano, e ne incorona l’approdo a una esistenza più compiuta.

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