Floria a pezzi
A Reggio Emilia presentata l’opera in un atto “My name is Floria” di Virginia Guastella commissionata dalla Fondazione i Teatri per il Festival Aperto

Fra la base dell’angelo in bronzo di Peter Anton van Verschaffelt e il livello stradale ci sono circa 48 metri. Difficilmente un corpo che si lanciasse da quell’altezza sopravviverebbe all’impatto con il suolo e manterrebbe la sua integrità. Eppure nell’opera tutto è possibile, anche che una delle più celebri suicide da Castel Sant’Angelo torni a vivere. Nonostante il salto, sdraiata su una lettiga ritroviamo tale Floria, completamente nuda e in ottima forma fisica, riprendere lentamente vita nella nuova opera in un atto di Virginia Guastella My name is Floria, commissionata dalla Fondazione I Teatri e Festival Aperto di Reggio Emilia nell’ambito del Reggio Parma Festival “Arcipelaghi 2025” e andata in scena per sole due recite al Teatro Ariosto. Che si tratti proprio di “quella” Floria lo suggeriscono alcune linee del testo, decisamente frammentario, assemblato dalla stessa Guastella con parti proprie e altre liberamente ispirate a quelle dei librettisti pucciniani Giuseppe Giacosa e Luigi Illica, ma anche di Victorien Sardou, Percy Bysshe Shelley e John Keats. Infallibili per l’identificazione della salma i versi “Avanti a Dio! Finire così, finire così” ma anche da un precedente esercizio compositivo della stessa Guastella, il “duodramma” (o, più banalmente, melologo) Floria, sì, sono io dichiaratamente ispirato alla Tosca, con la voce di Stefania Sandrelli e l’accompagnamento pianistico di Orazio Sciortino visto a Torre del Lago qualche anno fa. Poi però il dubbio viene che non si tratti piuttosto di una Floria nostra contemporanea che, nella bizzarra seduta di psicoterapia collettiva, il quartetto vocale, presente in tutto il lavoro, la descrive come preda di “un esaurimento nervoso e un salto” e lei chiosa: “All’improvviso tutto è cambiato”. La ascoltano Damien, che soffre di depressione, e John e Maggie, che la mettono in guardia perché qualcuno le vorrebbe far (ri)perdere l’equilibrio.
Un finale sospeso lascia lo spettatore con parecchie domande ma soprattutto quella, fondamentale, sul senso di questo oggetto musicale che si autodefinisce “opera” ma che rinuncia completamente a una drammaturgia in qualche modo leggibile al di fuori dell’esercizio solipsistico. Lo stesso discorso vale per una musica che, senza meta precisa e mancante di una chiara architettura, procede per blocchi sonori slegati prodotti da strumenti tradizionali e dall’elettronica impiegata anche per ormai datati esercizi di spazializzazione.
Più di una carenza strutturale viene fortunatamente ben mascherata dalla brillante realizzazione scenica curata da Luigi Noah De Angelis di Fanny & Alexander per regia, scene e luci (i costumi invece sono di Chiara Lagani) completata dall’allestimento multimediale firmato da Michele Mescalchin. Sono soprattutto le sofisticate immagini rimandate dal LED-Wall del fondale nella prima parte a definire uno spazio psichico o onirico e a compensare la fumosa indeterminatezza del frammentario testo. Nella seconda parte, sono invece la psichedelia luminosa ad animare le sedie in circolo dei soggetti coinvolti nella terapia di gruppo che accarezza l’assurdo.
Meticolosa e precisa anche l’esecuzione musicale dei bravi strumentisti dell’Icarus Ensemble diretti per l’occasione dal braccio esperto di cose contemporanee di Marco Angius, che anche in questa occasione sfoggia l’acribia di chi ai progetti crede fino in fondo. All’elettronica invece pensa Tempo Reale, ossia Giovanni Magaglio e Damiano Meacci.
Sala piena a metà nella seconda e ultima recita. Applausi.
E alla fine un ultimo dubbio ci assale: ma se a volar giù da Castel Sant’Angelo sia stata proprio l’opera?
Se hai letto questa recensione, ti potrebbero interessare anche
L’oratorio per soli, coro e orchestra La passione di Gesù Cristo signor nostro nella prima esecuzione odierna della seconda versione.
Un’ottima realizzazione dell’opera giovanile di Mozart all’Opera di Roma
Un nuovo allestimento dell’opera giovanile verdiana al Teatro La Fenice