Dio e il suo doppio nel teatro del mondo 

Allo Staatstheater di Mainz va in scena la misteriosa opera Antikrist di Rued Langaard 

Antikrist
Foto di Martina Pipprich
Recensione
classica
Staatstheater Mainz
Antikrist
12 Giugno 2018

Figura singolare quella del danese Rued Langgaard, talento precoce alla tastiera e organista in cerca di posto fisso per una vita, prima di ottenerlo finalmente a 46 anni nella cattedrale di Ribe, cittadina dello Jutland meridionale, che oggi gli dedica un piccolo festival nella tarda estate. Fu anche compositore molto prolifico in lotta costante con l’establishment per un riconoscimento che gli arrivò soltanto molti anni dopo la morte nel 1952 a soli 59 anni (fra i suoi estimatori, György Ligeti si definiva “imitatore di Langgaard”).

Non andò molto meglio alla sua unica opera, Antikrist, rifiutata dall’Opera reale danese non solo nella versione originale completata nel 1923, ma anche nei rifacimenti del 1930 e 1935. La prima esecuzione pubblica avviene solo nel 1980 per l’impegno di Michael Schønwandt che la dirige con l’Orchestra Sinfonica Nazionale Danese, ma occorrerà aspettare ancora vent’anni prima che un altro direttore danese, Niels Muus, riesca a portarla in scena al Tiroler Landestheater di Innsbruck nel 1999, cui seguono un paio di allestimenti in patria, a Christiansborg nel 2002 e al Langgaard Festival di Ribe nel 2015. A portarla per la prima volta in Germania provvede lo Staatstheater di Mainz, che la presenta in un nuovo allestimento a fine stagione. 

 

Strutturata in due atti divisi in sei scene, Antrikrist è un’opera dal segno decisamente originale e contro molte convenzioni del genere. Nonostante sia frutto di un’epoca animata da effervescenti avanguardie, il linguaggio è saldamente ancorato alla tradizione wagneriana e straussiana, specialmente nella ricchezza dell’orchestrazione, punto di forza del lavoro di Langgaard. Un’evidente debolezza è invece il testo dello stesso compositore ispirato a una lettura a dir poco originale dei testi sacri. Più che un’opera con una sua coerenza interna, si tratta di una serie di quadri slegati con monologhi di personaggi dall’oscura carica simbolica, prima ancora che religiosa. L’insieme forma un polittico sulla apocalisse dell’umanità, che rimanda a certe sacre rappresentazioni medievali di area nordica. Non si spinge troppo sul piano dell’esegesi l’allestimento firmato da Anselm Dalferth, che invece propone una psichedelica e quasi circense versione personale del teatro del mondo in sei stazioni verso l’abisso (e una dubbia redenzione): Vanagloria, Disperazione, Lussuria, Conflitto contro tutti, Perdizione. Registi di questa rappresentazione poco sacra e assai profana sono un Dio tutto bianco con la faccia nera e un Lucifero tutto nero con la faccia bianca, complementari come yin e yang. 

Grande impegno per tutti gli interpreti: specialmente per la coppia di protagonisti, l’atletico Dio parlante di Ivica Novakovic e il sornione Lucifero di Peter Felix Bauer, ma anche per la Grande Puttana di Vida Mikneviciute e la Menzogna di Alexander Spemann, entrambi alle prese con scoscese tessiture sideree, e per la Bocca che dice Grandi Cose (per lo più indecifrabili) di Nadja Stefanoff. Grande impegno anche per il direttore Hermann Bäumer alle prese con una scrittura orchestrale dalla quale filtrano l’aria dei giardini di Klingsor e i densi turgori del romanticismo terminale con solo qualche timida dissonanza espressionista. Le ottime intenzioni purtroppo scontano qualche limite tecnico della Philharmonisches Staatsorchester di Mainz, non sempre impeccabile e con un suono privo talvolta della gravità necessaria. 

Il pubblico non è mancato all’appuntamento con un’autentica rarità. Caldi applausi.

 

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