Il regalo di addio dei Berliner da Baden-Baden
Folgorante apertura del Festival di Pasqua a Baden-Baden prima dell’addio e il ritorno a Salisburgo

È il momento dell’addio a Baden-Baden per i Berliner Philharmoniker: con questa edizione del Festival di Pasqua si conclude un lungo ciclo iniziato nel 2013 (con il significativo passaggio di testimone da Simon Rattle a Kirill Petrenko nel 2019), prima del “ritorno a casa” a Salisburgo come orchestra residente del festival fondato con loro e per loro da Herbert von Karajan nel 1967. Dal 2026 anche a Baden-Baden si cambia formula ma intanto si chiude confermando una formula di successo che si ripete anche in quest’ultima edizione. Soprattutto, si chiude con un tocco di italianità: è infatti la pucciniana Madama Butterfly, dopo il doppio Strauss de Die Frau ohne Schatten del 2023 e de Elektra del 2024, la produzione scelta come spettacolo di punta dell’edizione 2025. Se è il primo dell’era Petrenko a Baden-Baden, Puccini non è una novità per il Festival di Pasqua: nella seconda edizione Rattle aveva scelto Manon Lescaut per il suo debutto pucciniano ed aveva attinto di nuovo nel 2017 al catalogo del Lucchese per una poco memorabile Tosca.

L’italianità non è solo nel titolo ma anche nella protagonista scelta per questa lussuosa produzione, una festeggiatissima Eleonora Buratto, che tradisce una certa tensione solo in qualche acuto molto tirato ma che nel complesso offre una grande prova di maturità di interprete. Italiano è anche il team registico guidato da Davide Livermore affiancato dai soliti stretti collaboratori Giò Forma per la scenografia e D-Wok per le immagini animate rimandate dai LED-Wall del fondale e dello schermo orizzontale che amplifica l’essenziale schema scenografico. A loro si aggiungono il gusto e l’eleganza della costumista Mariana Fracasso e l’abile disegno luci di Fiammetta Baldiserri che illumina con un segno sempre vivido i corpi nel contrasto con le immagini video. Con un profluvio di immagini spesso esagerato, Livermore si conferma fantasioso illustratore anche in questo spettacolo ben meno caustico del vecchio allestimento spoletino del geniaccio provocatore Ken Russel, con cui condivide lo spostamento dell’azione dal primo Novecento del libretto alla Nagasaki degli anni successivi alla Seconda guerra mondiale ma con pochissime tracce visibili del devastante recente bombardamento nucleare ma anche dell’alienazione culturale imposta dai vincitori ai vinti. Resta solo una bandiera americana che torna spesso nelle immagini video immersa in un liquido dai movimenti rallentati in stile Bill Viola e cade sul corpo straziato di Cio-Cio-San nell’immagine finale. Vero è che in questo allestimento la vicenda è rivissuta dal figlio di Cio-Cio-San (Anton Forcher) alla ricerca delle proprie radici nella Nagasaki del 1978, totalmente occidentalizzata, sotto la guida di una Suzuki invecchiata (l’attrice Ayaka Kamel). “Pronto, Kate?” le dice lui al telefono e lei: “Perché non mi chiami mamma?”, “Perché mia madre è un’altra” e da lì comincia la ricerca della sua identità, dai suoi disegni infantili conservati dalla fedele servitrice della madre a tutta una gamma di emozioni evocate dalla memoria di quella donna che lui ha a malapena conosciuto. Soluzione non inedita – nella nostra memoria di spettatori ricordiamo almeno quella svolta in chiave psicoanalitica allestita dal regista Christof Nel all’Opera di Francoforte nei primi anni 2000 che si chiudeva con il suicidio del figlio adulto “in simpatia” con quello della madre – ma svolta con eleganza e soprattutto senza destrutturare l’infallibile drammaturgia dell’originale.

Chi pensa che la Butterfly sia opera di cantanti, e soprattutto del soprano protagonista, si dovrà ricredere una volta di più ascoltando la straordinaria esecuzione dei Berliner Philharmoniker, che in questa occasione trovano un suono leggero e, si direbbe, solare, diretti da Kirill Petrenko. Il direttore russo non è certo una bacchetta incline al sentimentalismo zuccheroso: nei primi due atti la sua direzione analitica colpisce soprattutto per la chiarezza con la quale l’elaborata scrittura orchestrale pucciniana viene resa all’ascolto senza omettere il minimo dettaglio e per il miracoloso equilibrio con le voci sul grande palcoscenico del Festspielhaus mai soffocate dal peso orchestrale. Nel terzo, però, finalmente Petrenko lascia spazio al sentimento e serve alla protagonista un finale ad alta temperatura emotiva e il prevedibile trionfo. Buratto a parte, il resto della compagnia naturalmente è assolutamente all’altezza a partire dal musicalissimo Pinkerton di Jonathan Tetelman dal seducente colore lirico (e si capisce come l’improvvida Cio-Cio-San possa esserci cascata), al nobilissimo e commovete Sharpless di Tassis Christoyannis, alla sensibile e introversa Suzuki di Teresa Iervolino, al petulante ma mai caricaturale Goro di Didier Pieri e fino a tutti i ruoli minori.
Negli ultimi 12 anni la presenza dei Berliner Philharmoniker è stata capillare in tutti gli appuntamenti della kermesse pasquale della cittadina termale e anche questa ultima edizione non fa eccezione. All’indomani della serata di inaugurale, instancabili, alcuni musicisti dell’orchestra berlinese (cioè i violinisti Wolfram Brandl e Rachel Schmidt, il violista Micha Afkham, il violoncellista Claudio Bohorquez, il contrabbassista Peter Riegelbauer, il clarinettista Alexander Bader, il fagottista Markus Weidmann e il cornista Andrej Žust) si ripresentano in formazione cameristica come Scharoun Ensemble, formazione intitolata ad Hans Scharoun, architetto della Philharmonie di Berlino, attiva fin dal 1983 e anima del Festival di Zermatt dal 2005. Dopo l’immancabile strazio emotivo della Butterfly, il menù è decisamente più leggero nel concerto pomeridiano della Weinbrennersaal nello storico Kurhaus. Si apre con il deliziosamente démodé Ottetto di Jean Françaix, composizione del 1972 (chi lo direbbe mai!) che rimanda alla levità di molte delle composizioni del Gruppo dei Sei, prosegue con lo spiritoso Bergmensch (Montanaro) dello svizzero-americano Daniel Schnyder composto nel 2012 per lo stesso Scharoun Ensemble ed eseguito fra le montagne svizzere di Zermatt con curiose contaminazioni folk (specie nel secondo movimento, “Stubete”, termine in “schwiizertüütsch” per i raduni di musicisti folk) e un vorticoso finale (“Ötzis Tod”, ossia la morte di Ötzi, il nomignolo dato alla mummia del Similaun). Chiusura con una sorprendente riduzione per nonetto (agli altri otto si aggrega il flautista Egor Egorkin) del Till Eulenspiegel di Richard Strauss firmata nel 1996 per lo Scharoun Ensemble dall’australiano Brett Dean, fino al 1999 violista dei Berliner e oggi affermato compositore e direttore d’orchestra. Grazie all’abile riscrittura per quartetto di fiati e quintetto d’archi si perde poco della funambolica scrittura straussiana e resta intatto o addirittura esaltato il brioso dialogo fra gli strumenti solisti dell’originale.

Ancora Richard Strauss e ancora un poema sinfonico, Eine Alpensinfonie, torna nel concerto sinfonico del Berliner Philhamoniker, questa volta in versione estesa e diretti da Klaus Mäkelä, che conclude il fine settimana inaugurale del festival. Prima del grande affresco naturalista-filosofico straussiano, però, il programma propone un’apertura in grande stile con il temibile “Rach 3” ossia Concerto per pianoforte n. 3 in re minore op. 30 di Sergej Rachmaninov, composizione del 1909 considerata da molti come il più complesso fra i concerti per pianoforte mai scritti. Che sia vero o no, il solista Leif Ove Andsnes dà mostra di lodevole sangue freddo alla tastiera davanti alle difficoltà tecniche immaginate dal compositore e virtuoso del pianoforte Rachmaninov. Piuttosto lontano dall’immagine del pianista accanitamente romantico anche nel gesto enfatico, Andsnes trasforma questo concerto in un appassionante saggio di tecnica pianistica, attenuando i contrasti esagerati nei colori ed esaltando invece la chiarezza della scrittura pianistica di Rachmaninov con una precisione quasi chirurgica. I contrasti stanno invece tutti nell’orchestra, bellissima, diretta da Mäkelä con grande slancio che talora, soprattutto nell’Intermezzo del secondo movimento, tende a prevaricare sull’eleganza del gesto pianistico. Un autentico trionfo per il pianista norvegese, che si congeda dal pubblico festante regalando un bis.

“Finalmente ho imparato a orchestrare!” si dice abbia esclamato Richard Strauss alla fine delle prove della sua Alpensinfonie sul podio della Königliche Kapelle di Dresda prima del debutto berlinese nell’ottobre del 1915. Non potrebbe che dire lo stesso davanti all’autentica esplosione di colori e di immagini di nitore quasi cinematografico (in Cinemascope, ovviamente) nella trascinante esecuzione offerta dai Berliner, davvero al meglio della loro forma sotto l’ispirata e vitaminica guida del giovane direttore finlandese. Dal silenzio della notte alla maestosità della visione del sole appena sorto, passando per il puntillismo sonoro delle vorticose acque del ruscello che sfocia nella maestosità della cascata, e via via fin su sulla cima con il suo grandioso scorcio sulla natura e poi la discesa con l’improvvisa bufera e finalmente la serenità del tramonto e la rasserenante quiete della notte: è quasi un racconto che cattura l’ascoltatore e non lo lascia fino alla fine di questa escursione nell’universo di suoni usciti dalla penna di Strauss. Un trionfo personale per l’orchestra ma soprattutto per Klaus Mäkelä, che è quasi una incoronazione nel luogo che lo vedrà occupare un posto di rilievo nelle prossime Pasque musicali di Baden-Baden con la sua nuova orchestra, la Royal Concertgebouw Orchestra di Amsterdam. Se quest’anno si chiude una pagina importante per questa rassegna, il futuro fa davvero ben sperare.
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