L’epitaffio discografico di Steve Albini

To All Trains degli Shellac è uscito dieci giorni dopo la morte del fondatore

Shellac
Disco
pop
Shellac
To All Trains
Touch and Go
2024

Fa un certo effetto ascoltare le ultime parole dell’ultimo brano dell’ultimo album degli Shellac: “Se c’è un paradiso, spero che si divertano, perché se c’è un inferno, incontrerò tutti”.

Difficile sottrarsi alla suggestione premonitrice, vista la sinistra coincidenza: To All Trains è uscito a dieci giorni dalla scomparsa di Steve Albini, ucciso da un infarto il 7 maggio, all’età di 61 anni. Baluardo della scena indipendente di estrazione punk, sia da musicista (Big Black e Rapeman, in precedenza) sia come produttore – ma lui preferiva definirsi “fonico” – per conto di Nirvana, PJ Harvey, Pixies, Page & Plant e via elencando, nonché pokerista provetto, si applicava alla musica con etica rigorosa.

Volendo evitare la retorica da “coccodrillo”, che immaginiamo avrebbe detestato, non c’è modo migliore per ricordarlo di prestare attenzione a questo disco, sesto confezionato insieme agli inseparabili Bob Weston (basso) e Todd Trainer (batteria) nell’arco di tre decenni.

«Vogliamo solo fare dischi. Ci vuole tutto il tempo che ci vuole, escono quando escono, costano quanto costano e finiscono nei negozi, dove chiunque sia interessato o ne voglia uno può procurarselo»

«Vogliamo solo fare dischi. Ci vuole tutto il tempo che ci vuole, escono quando escono, costano quanto costano e finiscono nei negozi, dove chiunque sia interessato o ne voglia uno può procurarselo», affermava a proposito poche settimane fa, intervistato da “The Wire”, che ha dedicato al trio statunitense la storia di copertina del numero appena pubblicato. Ecco allora una decina di brani in mezz’ora scarsa e la solita ricetta: geometrie angolose, suoni taglienti, corporatura massiccia e humour nero.

Apre la sequenza l’hard rock liofilizzato di “WSOD”, sigla riferita al blocco di sistema che rende bianco lo schermo del computer: “Aspiro al bronzo, ma mi accontenterò del rosso, spacciato per oro”, il motto introduttivo. “Conoscete la canzone, è la vostra canzone preferita, la canzone con cui state spaccando il culo”, proclama beffardo il seguente “Girl From Outside” su un riff di chitarra ipnotico come un mantra.

Il tappo salta subito dopo con “Chick New Wave”: sprezzante bordata punk, a dispetto del titolo. Sbirciando fra le righe, troviamo poi una riverenza a Mark E. Smith in “How I Wrote How I Wrote Elastic Man (Cock & Bull)”, che cita appunto un vecchio 45 giri dei Fall e precisa: “Un nome di lavoro prende forma in base allo stile di una band preferita”.

È post punk dal gusto ombroso, codice che invece diventa dinamico durante “Scabby the Rat”, in onore del topo gonfiabile elevato a simbolo delle proteste operaie negli anni Ottanta a Chicago, città adottiva di Albini. Il tessuto narrativo ha qualcosa di Carver in “Wednesday”, ballata funerea su un suicida (“Quindi ricordatevi di lui così com’era, grande e forte, non si sarebbe sottratto mai a una rissa, e non della cosa triste che gli ha fatto saltare le cervella in cucina, mercoledì sera”), e nelle pieghe del marziale zigzagare di “Scrappers” (“Papà, hai lasciato il lavoro? Hai preso a pugni l’uomo che ha detto quelle cose? Hai venduto l’auto, comprato un camion e avviato l’impresa di rottamazione? Papà, è questo il tuo piano? Che piano, papà!”).

Ammonisce “Tattoos”: “Dicono che il tempo non aspetta nessuno, non potrebbero sbagliare di più, il tempo è paziente, come un cacciatore che aspetta il tuo arrivo”, concludendo con un’esortazione inquietante, “Tatuati i nomi dei morti sulle mani”. Altri presagi? “Sono l’ultimo giorno della tua vita, vissuto oltre ogni aspettativa”, annuncia “Days Are Dogs”, sketch di “rock minimalista” – lo chiamerebbero loro – dal profilo tetragono e spigoloso.

L’estate scorsa, interpellato da “The Guardian”, Steve Albini aveva dichiarato: «Quello che voglio fare è trovare un modo per chiudere la mia carriera dignitosamente, senza diventare imbarazzante». Missione compiuta.

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