Le canzoni a lume di lampada dei Dirty Projectors

Il pop arzigogolato di Dave Longstreth nel nuovo album dei Dirty Projectors, Lamp Lit Prose.

AC

13 luglio 2018 • 2 minuti di lettura

Dirty Projectors
Dirty Projectors
Dirty Projectors
Dirty Projectors

Dirty Projectors

Lamp Lit Prose

Domino 2018

Usare la canzone pop come forma su cui applicarsi con metodi d’avanguardia è impresa meritevole di ammirazione, anche se all’ascolto i risultati possono suonare talora indisponenti. Esemplare il caso del laboratorio chiamato Dirty Projectors, del quale è principale – e a volte unico – responsabile il trentaseienne Dave Longstreth.

Dopo un apprendistato punteggiato nella prima metà dello scorso decennio da opere bizzarre (con tributi divergenti all’“aquila” Don Henley, in The Getty Address, e ai radicali punk californiani Black Flag, in Rise Above), l’avventura raggiunse il suo apice – a oggi insuperato – nel 2009 con Bitte Orca: capolavoro asimmetrico che diede lustro – insieme ai lavori concomitanti di Animal Collective e Grizzly Bear – alla “scena di Williamsburg”, ambientata appunto nella porzione di Brooklyn allora epicentro della bohème newyorkese.

Quel disco e il successivo Swing Low Magellan, quasi altrettanto convincente nel modo in cui equilibrava intenzione comunicativa e attitudine sperimentale, erano tuttavia frutto di un’alchimia provvisoria, legata alla partnership sentimentale – oltre che artistica – fra il capobanda e Amber Coffman. Sia chiaro, non è per farsi i fatti altrui: Longstreth stesso ha posto esplicitamente il trauma della separazione al centro del cervellotico album – “Una fantasia cubista”, a suo dire – uscito senza titolo al principio dell’anno passato.

E siamo dunque a Lamp Lit Prose, dove trapela maggiore serenità, dovuta a una nuova relazione amorosa: “Lei è la mia epifania”, dichiara fra spasmi elettronici la voce carezzevole del protagonista in “Break-Thru”, alludendo versi facendo al cinema di Fellini e al Palinsesto di Archimede.

Il tono è quello, in genere: raffinatezze narrative a un passo dal birignao, sfacciati ammiccamenti pop e – all’opposto – dispettose astrusità concettuali negli arrangiamenti. Quando l’artificio non funziona, l’esito indispettisce: “Zombie Conqueror” è una goffa simulazione di metal “mentale” e “I Feel Energy” sembra il sottoprodotto di un David Byrne giù di ispirazione. Altrove la situazione migliora: l’iniziale “Right Now” tramuta un madrigale country in soul avveniristico e “That’s a Lifestyle” – con la sua melodia arzigogolata su arpeggio acustico – fa tornare in mente certi vezzi sofisticati dei Prefab Sprout di Paddy McAloon (anch’egli apprendista stregone nel reame della musica leggera).

Il trittico conclusivo, mostrandosi conciliante, risolleva infine le sorti dell’impresa: “What Is the Time” inocula malinconia in un sobrio groove R&B (e qui la sensazione è di risentire nel falsetto di Longstreth quello del britannico Green Gartside, ossia mister Scritti Politti), “You’re the One” è un’aggraziata polifonia intonata con i compagni di merende Robin Pecknold (Fleet Foxes) e Rostam Batmanglij (Vampire Weekend), mentre “(I Wanna) Feel It All” modula l’epilogo su un registro rarefatto da jazz “progressivo”. Cosicché, per quanto non esattamente affabile, questa “prosa a lume di lampada” restituisce almeno a tratti smalto ai Dirty Projectors.