La palude esistenziale di Massimo Silverio
Nel nuovo album Sùrtum il cantautore friulano conferma e accresce il proprio valore
06 ottobre 2025 • 2 minuti di lettura
Massimo Silverio
Sùrtum
Con l’album precedente avrebbe meritato di vincere la Targa Tenco, tanto da esordiente quanto nella sezione dialettale, siccome scrive e canta in lingua carnica. Poco male. Massimo Silverio ha potuto consolarsi pensando ai consensi riscossi da Hrudja oltre confine: Iggy Pop lo aveva trasmesso e raccomandato su BBC Radio 6, quando nelle pagine di “Mojo” era stato definito “impressionante”.
A dar seguito a quel disco è adesso Sùrtum, realizzato affidandosi ancora alla produzione di Manuel Volpe – torinese adottivo, a capo della Rhabdomantic Orchestra – e al contributo ritmico di Nicholas Remondino, cui si aggiungono nell’occasione lo scozzese Martin Mayes (corno alpino), Mirko Cisilino (corno e tuba), la violinista Benedetta Fabbri e la violoncellista Flavia Massimo.
Il titolo equivale a “palude”, fonte “di morte e di vita” secondo lui, che considera l’umidità “luogo sacro che sta scomparendo”. La narrazione si dipana in un habitat naturalistico dalla valenza metaforica: l’iniziale “Sorgjâl” prende nome dal fusto secco della pianta del mais e si estende a un passo dai dieci minuti su cadenza trip hop dall’andamento mesto, sottolineato da un bordone di violoncello e sfregiato da un riff di chitarra quasi metal. È una “canzone/preghiera” intonata dall’autore con voce prima sommessa e poi solenne: “Peggio di tanto dolore c’è solo il non ascoltare”, dice verso la fine.
Il paesaggio esistenziale abbraccia dunque la morte (“Vàre” significa “tomba” e designa un episodio di ambient impressionista screziato da rumori sinistri: “Lascia andare ogni cosa che la carne è solo carne”, ammonisce a un certo punto) e la vita (a essa si riferisce in chiusura “Ghirbe”, affresco ecologico a tinte fosche aperto da una visione che pare uscita dalla penna di Paolo Cognetti: “Dimmi quanto è vecchia una montagna, sbriciola i campi, la valle, ogni roccia, frantuma le voci, la vita, di questa gente, la povera gente”).
La scrittura è immaginifica ed enigmatica, sia per l’idioma elettivo, di suo impenetrabile e “straniero”, sia nell’inclinazione poetica, prossima all’esoterismo gotico: dolente elegia sorretta da archi e ance, “Prin” suscita inquietudine (“Al di sopra di carogne, fiori e brina, il sole crolla, l’ombra canta”), mentre “Zoja” –la ghirlanda funebre – disegna su un arpeggio tetro figure minacciose (“Casa di rami, midollo evaporato, crepa nel corno, roncola spezzata”).
E tuttavia Silverio afferma di perseguire “linguaggi di fratellanza”: lo si percepisce in particolare nei brani infusi di sentimento, sviluppati su canovacci da folk evoluto (“Grim”, che sta per “grembo” e confida: “Siamo tue erbe dentro il mazzo, talismani del giugno, pezzi di filo del tuo grembiule, tua rugiada e incantata goccia”) o in purezza (l’evanescente “Avenâl” è un’ode d’amore intestata alla “sorgente”: “Da anima ad anima, attraverso il suo legno, senza mai essere tarlo”). Convincente anche dal vivo, il 33enne cantautore friulano conferma in Sùrtum il proprio valore e anzi lo accresce.