Il segreto di Venerus
Una mezz’ora di “musica umana” da Venerus, cantautore milanese ora innamorato del passato.
09 giugno 2023 • 3 minuti di lettura
Venerus
Il segreto
Il milanese Andrea Venerus, definito in arte solo dal cognome, è una sorta di anomalia nella scena nazionale.
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Allevato nell’incubatore del rap nostrano, come provano le partnership con i vari Franco 126, Gemitaiz, Ghali e Mace, crescendo ha finito per aderire al prototipo del cantautore: «Ci ho messo un po’ a capire che cosa sono e alla fine di quello si tratta: uno che scrive testi e musica e interpreta le sue canzoni. Non è un genere musicale, semmai un mestiere, ed è quello che faccio, senza alcun dubbio», mi ha detto una volta.
Entrato in grande stile negli anni Venti, con l’album d’esordio Magica musica e l’ambizioso show L’estasi degli angeli, cui è seguita una tournée europea in solitudine (piano e voce), ha catalizzato l’attenzione su di sé e si trova adesso a doversi confrontare con aspettative considerevoli, riferite in particolare al disco nuovo: Il segreto.
In apparenza la montagna ha partorito un topolino, quanto meno in termini di stazza: una decina di brani in poco più di mezz’ora, la metà esatta del lavoro precedente. All’ascolto, il distanziamento dai suoi trascorsi hip hop suona definitivo e lo conduce a un approdo dalla morfologia rétro. Ciò non accade per caso, se consideriamo la sua intenzione programmatica: «In un mondo che va verso l’intelligenza artificiale, questo album è il manifesto della musica umana».
«In un mondo che va verso l’intelligenza artificiale, questo album è il manifesto della musica umana».
Prima di mettersi all’opera, mi aveva confessato: «Sono innamorato di certe cose del passato e adoro andare nei negozi a cercare vecchi vinili. Fino a qualche anno fa ero molto più attento all’attualità, ma a un certo punto mi sono reso conto che i dischi da cui sono davvero affascinato appartengono ad altre epoche, diciamo dai primi anni Sessanta alla fine dei Settanta. Sono rapito da come veniva concepita e realizzata la musica allora».
Altrove lo osserviamo vagare randagio in città e imbattersi in figure femminili, come capita fra le pieghe funk di “Sola” (“Si avvicina così magica, quasi non sembra reale, lo sguardo perso nell’anima”) e le languide voluttà di “Sai che c’è” (“Noi che balliamo nudi mentre aspettiamo la sera”), oppure affidare il proprio destino all’arbitrio di un taxista (“Mi porti a fare un giro, si inventi una destinazione, ho voglia di perder tempo, sentirmi un po’ meno coglione”) in “Non imparo mai”.
Durante quest’ultima, si domanda in chiave retorica: “Ma ormai hai fatto trent’anni, quando pensi di crescere?”. E riprende l’argomento nella conclusiva “Fantasia”, ballata acustica da falò in riva al mare: “Mi hanno detto già che forse dovrei crescere, ho sospirato e poi mi sono messo a ridere”, racconta, siccome “ho costruito il mio castello sopra le nuvole, ora non voglio aprire gli occhi, non voglio smettere”, recita il ritornello.
Ecco l’istantanea di sé stesso che ci consegna: ritrae un artista di talento che non intende rinunciare ai sogni, a costo di sacrificare i benefici dell’integrazione nel mainstream.