Quando l’Italia ballava l’afro-funk

Pierpaolo De Sanctis ci racconta la compilation Africamore, che raccoglie il sogno afro degli anni Settanta italiani

Africamore
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La Four Flies ci ha abituato a intriganti scorribande negli aspetti meno celebrati della musica italiana degli scorsi decenni.

Da sempre attenta ai recuperi più sfiziosi legati alle colonne sonore o alla library, ci aveva già sorpreso un paio d’anni fa con Paisà Got Soul e ora prova a fare il bis con il doppio Africamore - The afro-funk side of Italy (1973-1978), che va alla scoperta del rapporto tra l’Afro-funk e la musica della penisola in quegli anni cruciali in cui il divertimento notturno e le musiche che lo accompagnano erano in veloce evoluzione verso il regno della disco music.

– Leggi anche: La via italiana allo yacht rock

Tribalità, percussioni, soul, funk, Africa e diaspora, ma anche psichedelia, rock, prime plasticosità world, sull’onda del grande successo di Manu Dibango e della sua “Soul Makossa” – cui le serate newyorkesi di Dave Mancuso avevano fatto da cassa di risonanza internazionale – sono gli ingredienti di questi vinili, che ripropongono nomi spesso obliati, ma spontaneamente in sintonia con quel tipo di ritmo, cui - con quello scarto culturale tipico del grande artigianato sonoro italico dell’epoca - aggiungono invenzioni originali.

Lasciandovi il piacere di scoprire le 12 chicche di questa raccolta, abbiamo fatto due chiacchiere con Pierpaolo De Sanctis, che l’ha curata e che ne conosce tutti i segreti!

Partirei chiedendoti com'è nata l'idea di focalizzare l'attenzione sulla riscoperta di questo momento di passaggio, che anticipa alcune sonorità della nascente scena disco/cosmic italiana

«Africamore nasce in modo un po’ casuale, partendo dalla mia attività come DJ e ricercatore musicale. Sono da sempre alla ricerca di pezzi italiani eccentrici, un po’ oscuri, da riscoprire, non solo in ambito colonne sonore anni Sessanta e Settanta, ma anche passando attraverso generi come il jazz, il funk, il soul, l’italo-disco, l’elettronica».

«A un certo punto, circa 5 anni fa, ho cominciato a notare come nella mia borsa da DJ stavano finendo sempre più brani con questo tipo si sonorità afro-funk, con ritmiche molto percussive e ossessive, che preannunciavano la disco senza ancora coincidere esattamente con essa. Mi ha molto incuriosito questa scena musicale italiana che guardava al mondo delle discoteche, dei locali notturni, prendendo spunto da brani di successo di matrice afro. Ho cominciato a chiedermi da dove arrivava questa commistione, in un Paese come il nostro che all’epoca era certamente ancora molto chiuso a livello culturale. Non a caso, la chiave per far entrare la musica africana nella discografia italiana è stata il successo di Manu Dibango, esploso prima oltreoceano e poi arrivato da noi come molte altre mode anglofone.

L’Italia era un paese per molti versi chiuso, come hai detto, ma la musica popolare italiana ha sempre avuto la capacità di accogliere e metabolizzare elementi culturali e espressivi esterni. L'aspetto percussivo, tra l'altro, ha una profonda tradizione nel folk delle regioni meridionali. Quali possono essere dei "precedenti" un po' pionieristici di questo sound?

«Se andiamo a ritroso, prima del 1973 non me ne vengono in mente molti, di antecedenti. Penso soprattutto a Celentano, che con la base di “Prisencolinensinainciusol” paga certamente il pegno alle ritmiche afro. Ma siamo comunque già negli anni Settanta. Negli anni Sessanta probabilmente la contaminazione maggiore nella musica popolare italiana era con il Brasile, soprattutto attraverso due città come Napoli e Genova».

In che modo le influenze afro-funk che venivano dal successo di Manu Dibango e in generale dagli echi dei club newyorkesi sono state recepite dai musicisti italiani più curiosi? Spesso si tende a liquidare molti fenomeni come puramente derivativi, ma mi sembra che nelle tracce selezionate emerga anche un taglio originale, sbaglio?

«Assolutamente sì. “Soul Makossa" da noi ha avuto almeno una decina di imitazioni, fatte in diretta. Anche un compositore di nome come Armando Trovajoli ne coglie perfettamente il potenziale e ci costruisce sopra praticamente tutto il tema portante di “Sessomatto” nel 1973, lo stesso anno in cui il singolo di Dibango viene stampato per la prima volta in Italia su 45 giri. Solo che la versione di Trovajoli assume i connotati di un inno erotico-esotico molto groovy, ludico e libertario. Ancora più originale è senz’altro l’afro-funk di Celentano con “L’unica chance”, un pezzo dal groove afro eccezionale, esaltato dalla versione strumentale di Walter Rizzati che abbiamo inserito come brano di apertura della compilation, proprio a marcare un sound. Per non parlare di “Amore” dei Chrisma, che è la prima vera risposta italiana a Fela Kuti».

“Amore” dei Chrisma è la prima vera risposta italiana a Fela Kuti».

Ti ho chiesto dei precedenti, ma è interessante anche capire come si è evoluto, specie nella scena italiana, questo sound. In questo senso ho la sensazione che i momenti di transizione come quello da voi considerato raccontino molto bene anche una serie di strade possibili che non si sono prese... forse quella gioia ritmica che traspare era troppo difficile da mettere realmente a sistema?

«In effetti durante le ricerche per questa compilation mi sono chiesto come mai questo sound non abbia poi avuto la forza di aggregare una vera e propria scena, di identificarsi come un genere a sé. Forse non c’è stata una vera consapevolezza, uno spirito comune, in chi si è approcciato a queste contaminazioni afro in Italia».

«Tutto si è svolto in maniera abbastanza spontanea, naturale, i musicisti erano spinti più che altro dalla curiosità di provare e sperimentare soluzioni nuove, magari cavalcando la modo importata tramite le acquisizioni di Manu Dibango o Fela Kuti. Peccato non ci sia stata voglia di costruire di più, di fare tesoro di questi esperimenti, come invece è stato fatto in Francia, dove la scena afro, anche per motivi culturali, è sempre stata molto più presente e influente, allora come oggi».

«Poco fa citavo “Amore”: quando i Chrisma la suonarono al Festivalbar del 1976, con gli Osibisa come sezione ritmica, fu uno shock per molti. Ancora oggi quel video fa un certo effetto. Viene da chiedersi cosa sarebbe stato il mondo discografico italiano se avesse saputo sfruttare la lezione di questi pionieri».

Ci sono tracce che, per motivi vari, sono rimaste fuori dalla raccolta, ma che trovate significative per questo genere di sguardo?

«Moltissime, più che altro per una questione di diritti. Una che avrei voluto tantissimo è “Myele” dei Black Line, un pezzo scritto da Danilo Pennone de “I ragazzi del sole” insieme a Samba Ngo, percussionista e cantante congolese, praticamente un manifesto dell'afrobeat italiano».

« Altre mi sono venute in mente solo dopo aver chiuso la compilation, come “Bongo Beat”, un brano folle di Michelino, uno che nei primi anni Sessanta faceva cha-cha-cha, ma che qui tira fuori una versione psichedelica e quasi prog di un classico dell’afro-funk come “New Bells”. Ce l'avevo da anni tra i miei 45 giri ma non l'avevo mai osservato sotto la lente delle contaminazione afro. Anche questo sarebbe stato perfetto nella tracklist di Africamore».

 

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