La via italiana allo yacht rock

Il fascino dello yacht rock all’italiana nei solchi di Paisà Got Soul!: ce lo racconta David Nerattini

Paisa Got Soul
Articolo
pop

Che il pop italiano, in quell’inquieto e fecondo periodo a cavallo tra la fine degli anni Settanta e l’inizio del decennio successivo, abbia esplorato con originalità e coraggio linguaggi e stimoli che venivano da un contesto internazionale in velocissima trasformazione, è un dato ormai riconosciuto.

Che le nostre artiste e artisti (anche di tradizione melodica) si confrontassero con i suoni e i segni della new wave o con il reggae o la disco, tanto per fare qualche esempio, era cosa piuttosto comune, favorita sia dalla ricerca di un rapido consenso giovanile – quand'anche derivativo – sia dalla progressiva internazionalizzazione dei nostri autori, arrangiatori e turnisti, che assorbivano e restituivano con creatività le migliori novità del mondo anglosassone.

In questo contesto non poteva mancare l’influsso di quel soft-rock (prevalentemente bianco) venato di soul e di sonorità jazz/fusion che oggi siamo soliti rubricare – con più o meno concordia sui confini della definizione – come yacht rock, una galassia di suoni e suggestioni di cui spesso oggi riconosciamo più le melodie – che passano spesso nelle radio più nostalgiche – che i nomi.

A questa “via italiana” allo yacht rock dedica ora una splendida raccolta in due vinili (o cd) la Four Flies Records: si intitola PAISA' GOT SOUL - Soul, AOR & Disco in Italy (1977 - 1986) ed è curata dal digger, producer e giornalista David Nerattini (insieme a Pierpaolo De Sanctis), in un crescendo di piccole sorprese e grandi gemme misconosciute.

In uscita il 10 giugno, il disco è già in preorder (lo potete anche ascoltare qui).

I pezzi sono davvero notevoli: si va dall’Alberto Radius di “California Bill” (dall’ottimo lp America Good-Bye) con un incredibile passaggio guttural/affogato che spunta in mezzo alla sensualità del mood, alla prima versione di “In alto mare”, cantata dal suo autore Mario Lavezzi.

Tra nomi noti - ma magari non ve li aspettavate qui – come Peppino Di Capri (la sua “Mo…”, da non confondersi con la successiva “E mò e mò”, è un piccolo gioiello, pur nella evidente influenza di “Off The Wall” di Michael Jackson) o Eduardo de Crescenzo, l’ormai immancabile - e per fortuna! - Enzo Carella, celebri session men o arrangiatori come Stefano Pulga o Beppe Cantarelli, meteore come Massimo Stella o Franco Camassa, la raccolta è davvero gustosa e potrebbe, con un po’ di coraggio retromaniaco, diventare un piccolo cult dell’estate.

Per saperne di più abbiamo conversato con David Nerattini, noto anche con il fantastico moniker Little Tony Negri e nella band La Batteria, musicista, produttore, DJ, ma soprattutto, come scrivevamo, curatore della raccolta.

Caro David, comincerei la nostra conversazione a partire dall'idea di questa raccolta: da dove nasce il progetto e quali caratteristiche uniscono i brani che avete scelto?

«Merito di quel sant’uomo di Pierpaolo De Sanctis della Four Flies Records, che ha intercettato due mix omonimi che avevo messo qualche anno fa su Soundcloud e deciso che potevano essere un buon punto di partenza per una compilation».

«L’idea quindi viene dal mio accumulo nel tempo di brani italiani che richiamavano un certo tipo di pop sofisticato americano molto soulful che ho sempre amato, da Gino Vannelli e Michael McDonald giù fino ad una miriade di artisti che magari hanno fatto uno o due album e poi sono spariti e diventati perlopiù autori e/o “big in Japan”, stesso destino di molti dei protagonisti di Paisà Got Soul. La riscoperta e la moda – ormai c’è da dire un po’ in calando – del cosiddetto “yacht rock” nel mondo e quello che finalmente vede in Italia un approccio serio da digger sul repertorio italiano da parte di di tanti DJ, appassionati ed etichette ha fatto il resto, rendendo un prodotto come questo sensato anche all’estero e quindi possibile».

«Ammetto infatti che il titolo è un rimando con velata ironia ad una compilation sullo stesso stile dedicata alle isole Hawaii, l’ottima Aloha Got Soul della Strut».

In questi anni recenti ci sono stati molti segnali che quel tipo di sound tornasse a essere significativo: penso alla rinnovata attualità di Enzo Carella (che qui troviamo con "Contatto") o a una "Notturno Italiano" di Mario Acquaviva finalmente di nuovo disponibile (a proposito, come mai non c'è Mario Acquaviva?), come mai secondo te, al di là dei ciclici ritorni delle mode, queste sonorità, in fondo legate a ritmiche da ballo, ci sembrano come oggetti conturbanti in questi tempi post e non solo post pandemici?

«Acquaviva era in una delle prime scalette che avevamo messo insieme io e Pierpaolo con un brano da Sogni e Ridi, alla fine però nel flusso della compilation era un po’ slegato dal resto e non è andato oltre, cosa capitata anche con altri brani che avrebbero meritato l’inclusione e che speriamo di inserire in un eventuale secondo volume».

«Riguardo alla significatività di questo sound, credo che la distanza temporale giochi un ruolo fondamentale nella percezione generale di certe caratteristiche sonore, diventate nel frattempo globalmente riconosciute e in qualche modo classiche anche nelle loro varianti locali, penso ad esempio alle cose brasiliane dello stesso periodo. Era inevitabile quindi che anche da noi si recuperassero a livello critico alcuni artisti particolarmente originali come Carella o Acquaviva, che partiti dal cantautorato (nel caso di Acquaviva addirittura da quello folk e politico) erano arrivati al pop un po’ per caso e da totali alieni».

«La danzabilità faceva parte del corredo pop dell’epoca, ancora influenzato dalla disco, quindi probabilmente era anche un modo per adeguarsi ai tempi, oltre che una scelta artistica. Alla fine un bel groove, una bella sequenza di accordi e una bella melodia sono cose che funzionano sempre e in quel periodo se ne sono prodotti in abbondanza e organicamente, cosa che abbiamo dato per scontata in tempo reale, ma che in questi anni di "devoluzione" tecnica e di significato della musica pop probabilmente abbiamo imparato ad apprezzare fino in fondo».

I modelli di riferimento, lo yacht rock o comunque un certo AOR e blue-eyed soul, sono generi che presso gli appassionati di musica hanno sempre avuto una fama un po' "nerdy", scontando forse una sorta di "insincerità" percepita, anche se la qualità di scrittura e di arrangiamento era mediamente alta. In Italia come arrivano questi suoni e come trovano una loro originalità? Penso a Pino Daniele o Enzo Avitabile certamente, alla contiguità con gli ambienti jazz/fusion, ma raccontami bene come è andata...

«La sincerità nell’arte credo sia sopravvalutata, così come l’originalità, che è sempre relativa. Questo genere però in effetti è legato a doppio filo con il mondo dei session men, spesso anche eroi della famigerata fusion, regno incontrastato dei “riccardoni”, ma anche di alcuni dei migliori musicisti, arrangiatori e compositori di sempre».

«La sincerità nell’arte credo sia sopravvalutata, così come l’originalità, che è sempre relativa».

«In Italia credo che il primo esempio concreto del genere sia “Figli delle stelle” di Alan Sorrenti, prodotto da Jay Graydon e arrangiato con lui da David Foster quando erano ancora due giovani e rampanti turnisti che stavano facendo il salto verso la produzione. Il successo di Sorrenti aprì le porte discografiche a quel tipo di suono molto californiano, reinterpretato poi all’italiana dai turnisti di casa nostra, che evidentemente ascoltavano anche loro attentamente Steely Dan, Crusaders, Toto e Earth Wind & Fire.
Da noi credo poi che sia stato anche un modo per gli autori di approcciare la musica soul senza ricadere ancora nei cliché insopportabili del “nero bianco”, inserendola nelle canzoni pop in maniera più organica e in equilibrio col nostro modo di scrivere le melodie».

Andiamoli un po' a scoprire alcuni protagonisti di Paisà Got Soul... l'Alberto Radius di America Goodbye, da cui avete tratto "California Bill", è un po' un classico cult della musica italiana del periodo, si potrebbe dire che è un passaggio obbligato per un turnista come Radius, ma il tipo di "tentazione" commerciale, alla fine non so quanto di successo, colpisce sempre...

«Quel pezzo di Radius con le sue suggestioni californiane era perfetto per iniziare la compilation, c’era fin dalla prima stesura e secondo me rappresenta proprio l’inizio del discorso che facevo prima, con ancora le reminiscenze del prog che affiorano in un tentativo di pop evoluto ma piacevole. In fondo è lo stesso percorso che stava facendo in quegli anni Lucio Battisti a livello più popolare, Radius non ha la sua scrittura geniale ma i suoi primi album sono comunque dei piccoli capolavori, specialmente Carta Straccia e America Goodbye».

"In alto mare" è un classico dell'italo-disco nella versione di Loredana Berté, ma qui avete scelto la versione del suo autore Mario Lavezzi, che se non erro era precedente, del 1979. Come mai questa scelta?

«La versione della Berté è talmente nota che avrebbe avuto poco senso metterla in una ennesima compilation, l’originale di Lavezzi invece si è sentita pochissimo e ha un’andatura più morbida che ben si adattava al nostro concept. Un modo anche per valorizzare un ottimo compositore e far riscoprire un pezzo arcinoto in una versione diversa, ma altrettanto riuscita».

Un altro "cult" è "Se ti va così" di Serafini, autore che poi ha avuto una felice carriera come autore di canzoni per altri interpreti e per la tv... Raccontaci qualcosa di questo pezzo.

«Prima ancora Serafini faceva parte dei Panda, uno di quei classici gruppi di pop-rock melodico anni Settanta nati sulla scia dei Pooh. A suo nome fece un paio di album per la Ricordi nei primi anni Ottanta piuttosto interessanti in cui usava prevalentemente il Fairlight (uno dei primi sintetizzatori e campionatori digitali), che all’epoca non ebbero però grande successo. “Se ti va così” era il singolo del suo primo album omonimo del 1982 e mi è sempre piaciuto, è uno di quei brani che avevo “in canna” da sempre per la compilation, anche se a livello di suoni è già un po’ più digitale rispetto agli altri brani, non a caso sta in fondo nella scaletta».

Non ti nego che a me piace parecchio "Non andar via" di Franco Camassa, dove l'hai scovata?

«Franco Camassa è un una scoperta recente del digging che ormai si è scatenato dietro a questa roba, “soul brother” barlettano con all’attivo solo un EP ed un 45 giri che ormai hanno raggiunto cifre altissime. Il pezzo l’ha proposto Pierpaolo De Sanctis e sono stato ben felice di metterlo in scaletta, sostituendo alla grande uno ben più blasonato che alla fine non ci hanno dato il permesso di pubblicare».

Chi conosce un po' le vicende del pop italiano, sa che in quegli anni molti "improbabili" si cimentavano con generi nuovi, nel vano tentativo di conquistare pubblici più giovani, uno su tutti il mitico Jimmy Fontana di "Beguine". Qui troviamo il Peppino Di Capri di "Mo...", ma mi sembra che Peppino ci stia alla grande...

«Io il “La, làlla, lara, lallà” di “Beguine” lo ricordo ancora con piacere, però devo dire che Peppino è di un'altra categoria e sul soulful rende di più del pur grandissimo Jimmy. Peraltro la licenza ce l’ha data proprio lui in persona, dimostrandosi un signore oltre che un grande artista. Mi è sempre piaciuto fin da bambino, ed è stato bello trovare un suo brano in questa vena, che mi spiace abbia frequentato pochissimo visto il risultato».

Mi fa sorridere trovare anche un pezzo di Eduardo De Crescenzo... qualche giorno fa commentavo che la sua "Al piano bar di Susy" è in fondo una "What A Fool Believes" dei Doobie Brothers che non ce l'ha fatta... ma non c'è dubbio che il musicista napoletano, bravissimo, fosse in sintonia con quei suoni, che ne pensi?

«Lui cantava e canta da dio, ma il vero responsabile dell’ammiccamento a quelle sonorità è Claudio Mattone, che ha scritto e arrangiato tutte le canzoni di quell’album e dei tre seguenti. Infatti appena il sodalizio si è rotto De Crescenzo è andato su cose più complesse ed etniche, in qualche caso anche più interessanti ma meno “fresche” di quelle fatte con lui. Di Mattone c'è anche un album a proprio nome del 1975 che si chiama Un uomo da buttare via e non è niente male, sembra una specie di Jimmy Webb mediterraneo in salsa prog».

Se guardiamo le date dei brani, sono quasi tutti tra il 1979 e il 1982 (con qualche punta rara al massimo al 1986): cosa succede poi a questo tipo di suoni e di approccio?

«Dal 1984 cambiano radicalmente i suoni e gli arrangiamenti nella musica pop, passiamo definitivamente nell’era del midi e della sintesi FM. Per capire lo shift epocale in questo ambito basta confrontare gli album di Al Jarreau prima e dopo, prodotti entrambi da Jay Graydon. Nel 1982 Jarreau suona ancora molto anni Settanta ed analogico, due anni dopo invece High Crime è quasi tutto fatto con i sintetizzatori digitali e ha quel suono “campanellato” tipico della DX7 che ci ritroveremo ovunque per tutto il resto del decennio e oltre».

«Per fare un altro esempio in questo genere penso alla mutazione dei Pages in Mr. Mister, o alla differenza quasi generazionale fra Thriller e Bad di Michael Jackson (e Quincy Jones), un altro che come Jarreau a certe sonorità "yacht" ci arrivava dal senso contrario. In Italia il cambiamento è stato sicuramente più graduale e casuale, quindi alla fine anche il brano dell’86 suona come le cose di quattro anni prima, al contrario ad esempio di quello di Serafini che nel 1982 suonava già molto "futuristico" con il suo uso massiccio del Fairlight».

C'è qualche canzone che avreste voluto inserire e non siete riusciti?

«Più di una, alcune licenze ci sono state negate per oscuri motivi, altri brani sono bloccati in qualche contorto limbo legale all’italiana, di altri non si capisce chi sia il proprietario del master e altri ancora alla fine li abbiamo esclusi noi perché non rientravano nel flusso di questa compilation, che è pensata come un mix (considerando quindi nella selezione anche bpm e tonalità dei brani) da ascoltare volendo tutta di seguito».

«Se dovesse andare bene l’idea comunque è quella di fare un secondo volume, per il quale abbiamo già parecchie idee e brani da parte. Mi piacerebbe ad esempio nel prossimo inserire cose del filone più vicino al jazz e alla fusion, dagli esperimenti pop post-Perigeo di Giovanni Tommaso (New Perigeo, GND) a certe produzioni di Claudio Fabi e il suo stesso album solista, registrati in parte a Los Angeles con gente come Abe Laboriel e Alex Acuna, fino alle cose di Acquaviva più vicine agli Steely Dan. Chiaramente tutto questo al netto del calvario del licensing, che è un processo da noi tortuoso e lunghissimo specie quando hai a che fare con artisti non proprio notissimi, nonché talvolta assai (troppo) costoso».

In un recente post su Facebook scrivi di queste musiche: "brani che hanno in comune qualità di scrittura, arrangiamento ed esecuzione che il tempo ha reso ancora più evidenti e da cui la nostra odierna musica pop avrebbe molto da (re)imparare". In post di altri utenti si commenta il recente "Bar Mediterraneo" di Nu Genea con un  "carino, ma derivativo"... ecco parliamo di cosa potrebbe imparare la nostra odierna musica pop da questo tipo di produzioni e di cosa ti torna e cosa no...

«Un po’ di mestiere, probabilmente. Quella capacità che avevano di scrivere canzoni piacevoli e leggere ma con più livelli di lettura, armonicamente evolute senza essere stucchevoli e suonate con un certo trasporto strumentale. Ora è tutto più stilizzato e squadrato, queste invece erano piene di curve e di valli». 

Quali sono i tuoi prossimi progetti?

«Sto finendo in queste settimane la colonna sonora del nuovo documentario di Alex Infascelli (regista di S Is For Stanley e Totti) insieme con La Batteria e contemporaneamente chiudendo i missaggi di un mio EP che è lo spin-off di Diario Notturno, l’album che è uscito solo su cassetta per Spalato Wyale l’anno scorso. Si chiamerà Diario Minimo, dentro ci saranno un po’ di amici ospiti e stavolta se tutto va bene (che di questi tempi con la stampa non si sa mai) esce su vinile».  

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