Il talento di Dame Joan

Addio a Joan Sutherland

Articolo
classica
La scomparsa del soprano Joan Sutherland (Sydney, 7 novembre 1926 - Ginevra, 10 ottobre 2010) riaccende inevitabile il dibattito sulla sua importanza artistica: un dibattito soprattutto italiano, ché al di là delle Alpi e dei tre Oceani il valore storico di Dame Joan non è mai stato messo in discussione. Il catalogo dei pregi canori, molti dei quali insuperati e forse insuperabili, è ben lungo: voce piena e uniforme in tutta la gamma, d'una rotondità e pastosità che si faceva brillantezza col salire agli acuti; canto di agilità perfetto per intonazione e rigore ritmico, mai eccessivamente rapido, sempre composto e nobilmente elegante, da cui ogni nota usciva sgranata pur in un legato costante; un controllo del fiato assoluto, capace di attribuire ad ogni suono il giusto sostegno e, quando necessario, una durata fuori dal comune. Concentrate tutte queste qualità nella fascia alta dell'estensione e avrete i più strabilianti Mi e Mi bemolle sopracuti che soprano abbia mai affidato al disco. Bastava la promessa di una sola di tali note, ad esempio a conclusione di quella Lucrezia Borgia romana (1980) di cui ancora si parla, per far accorrere in massa gli appassionati, incuranti di quanto avrebbero udito nelle tre ore prececenti. Sì, perché qui stava il problema: la tenuta drammatica del personaggio nel suo complesso, inficiata da un'articolazione verbale quasi inesistente, che faceva anche dei recitativi una colata di suono (suono splendido, suono magico) quasi ininterrotta. Se il difetto veniva rilevato poco o punto dall'ascoltatore anglofono, è sempre risultato fastidioso all'orecchio del pubblico italiano, per il quale la parola non è un elemento secondario ma un mezzo primario nella creazione del dramma operistico. E il limite è risultato sempre tanto più evidente quanto accostato paradossalmente alla dizione scolpita nel marmo di Luciano Pavarotti, suo partner d'elezione, specie in ambito discografico. Per assurdo, la più diretta seguace di Maria Callas nella riproposta del belcantismo sommerso dal tempo, colei che rilanciò Semiramide, che fece di Bellini e Donizetti i suoi cavalli di battaglia sulla scia delle grandi primedonne ottocentesche, difettò proprio in quello che era stato il maggiore strumento espressivo di quelle artiste: l'accento.

Non inespressività, si badi, ma una espressività privata della parola, interamente appoggiata sulla musica, sul piacere del canto. Ecco perché le sue cabalette sono le più vive, le più brillanti, le più edonistiche ancor oggi immaginabili. E per molti versi le più perfette, fin quelle del giovane Verdi (Ernani, Attila, I masnadieri) collocate al limite dell'ineseguibilità. E se in una cabaletta "a due" le mettevate al fianco quell'altro mostro vocale chiamato Marilyn Horne (Semiramide, Norma), ecco che il godimento strettamente canoro diventava assoluto. Ma Joan Sutherland non si limitò al belcantismo romantico. Pagine importanti le ha scritte anche con Händel (Alcina, Rodelinda), in un periodo in cui le sue opere attendevano ancora l'attenzione delle grandi vocaliste. Un segno interessante l'ha poi lasciato anche in certo repertorio francese fuori moda (Lakmé, Esclarmonde, Hamlet). E se nei primi anni di carriera, durante una gavetta di oltre un decennio, troviamo pure tanta opera tedesca (Wagner, Weber, Mozart) e inglese (Britten, Goossens, Tippett), negli ultimi tempi fece storcere il naso a molti con inattese registrazioni veriste (Suor Angelica, Adriana Lecouvreur).

Scarse le apparizioni italiane: dopo alcune presenze a Genova, Milano e Venezia nei primi anni '60, che trovano il vertice esecutivo negli Ugonotti milanesi del 1961 (opera, questa, che deve alla Sutherland quel poco di popolarità goduta nel secondo Novecento e con la quale la cantante dette il suo addio alle scene: Sidney 1990), la manciata di appuntamenti successivi è inficiata da cast di contorno sorprendentemente mediocri e allestimenti di limitato spessore, come a voler far risaltare la primadonna dello spettacolo senza rischio di confronti. Tattica buona per l'Opera di Sidney, meno per i teatri italiani, se non a rischio di provocare spiacevoli rimostranze da parte del pubblico, come nel caso della Semiramide fiorentina del 1968 e ancor più della Traviata genovese del 1983, interrotta nel corso della prima recita.

L'ultima presenza in Italia risale al 22 maggio 2007: l'Accademia Filarmonica di Bologna attribuisce a lei e al marito, il direttore Richard Bonynge inseparabile compagno artistico, quel titolo onorifico che da Mozart a Benedetti Michelangeli onora secolo dopo secolo i grandi della musica. Ormai instabile sulle gambe, sempre più rigida nel corpo, Dame Joan dispensa sorrisi a tutti in quell'italiano stentato che non è mai riuscita a padroneggiare, a dispetto delle particolari scelte di repertorio. Pochi mesi dopo, una caduta in giardino mentre accudisce i fiori della casa svizzera le provoca una disastrosa frattura d'entrambi i femori e l'inizio del calvario che la condurrà alla morte.

Non cantava da vent'anni, ma per i tanti che hanno potuto udirla sempre e solo in disco non era di fatto cambiato nulla. La polacca dei Puritani "Son vergin vezzosa" continuerà a risuonare come la pagina più perfetta ed entusiasimante che Joan Sutherland abbia mai registrato in disco; e a chi riascolta quel miracolo esecutivo senza prevenzione risulterà chiaro come il ruolo di Bonynge non sia stato quello di un mero accompagnatore compiacente, ma di occulto artefice di tanto talento artistico.

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