Il coronavirus e i teatri in cassa integrazione

Intervista al sovrintendente Fortunato Ortombina sulla difficile situazione del Teatro La Fenice, a un mese dalla chiusura, pensando al dopo 

Teatro La Fenice - cassa integrazione - Ortombina
Il Quartetto Dafne al Teatro La Fenice
Articolo
classica

Il momento è difficile: il coronavirus ha spento già moltissime vite e rischia di avere conseguenze molto pesanti sul piano economico. Da subito il settore culturale ha rivelato tutta la sua fragilità dopo la chiusura forzata di teatri e luoghi di spettacolo in tutto il mondo. C’è chi pensa al dopo e a come trovare risorse per ripartire, come il sovrintendente dell’Opera di Roma, Carlo Fuortes, che in un intervento nel Corriere della Sera lancia la proposta di “Art & Culture Bond” emessi da ciascuna istituzione culturale pubblica o privata. 

Carlo Fuortes: il modello Roma

Ma intanto i teatri in tutto il mondo devono fare i conti con un’emergenza che, a oggi, non è chiaro quando finirà. Alcuni mettono in aspettativa senza retribuzione le proprie masse artistiche come la Metropolitan Opera di New York, altri, come il Landestheater e la Bruckner Orchester di Linz in Austria, riducono orario di lavoro e stipendio ai 659 dipendenti per tre mesi a partire dal 1 aprile con l’obiettivo di salvaguardare i posti di lavoro in questa fase complessa.

In Italia il Teatro La Fenice è stato il primo ad adottare lo strumento della cassa integrazione per i propri dipendenti, una decisione che il sindacato Libersind Confsal ha attaccato a testa bassa in un comunicato sostenendo che «il modello Fenice […] è servito per esaltare una tipologia di produzione incentrata sulla capacità di coprire con gli incassi una cospicua spesa per allestimenti e concerti, producendo pluriennali pareggi di bilancio, sta evidenziando tutta la sua forza effimera». 

Michieletto e il Teatro La Fenice insieme per la Protezione Civile 

Per parlare della difficile situazione del Teatro La Fenice e offrire “diritto di tribuna” abbiamo raggiunto telefonicamente il sovrintendente Fortunato Ortombina nella sua dimora veneziana, dove trascorre il suo isolamento aspettando che l’emergenza passi.

«Lo scriva: è il classico atto di sciacallaggio da tesseramento per cercare adepti in un teatro nel quale, al momento, non hanno nessun rappresentante e quindi non siedono al tavolo delle trattative sindacali».

«Lo scriva: è il classico atto di sciacallaggio da tesseramento per cercare adepti in un teatro nel quale, al momento, non hanno nessun rappresentante e quindi non siedono al tavolo delle trattative sindacali» è la sua prima reazione a quel comunicato ma subito entra nel merito della complessa situazione. 

Teatro La Fenice - cassa integrazione - Ortombina
Fortunato Ortombina (foto Anda Andrea Merola)

Un “modello costruito sulla sabbia”: un requiem per il cosiddetto “modello Fenice”. È davvero così? 

«Il cosiddetto “modello Fenice” è nato all'indomani dei tagli avvenuti in seguito alla crisi del 2008, quando molti politici anche in posizioni di responsabilità sostenevano che le fondazioni liriche costavano troppo e che nel Veneto due fondazioni liriche erano troppe. In pochi ricordano che si parlò anche di fondere Teatro La Fenice e Arena di Verona: una decisione che avrebbe lasciato a casa metà dei lavoratori da una parte e dall'altra».

Il modello Fenice: intervista a Fortunato Ortombina

«Se non avessimo adottato quel modello allora, il Teatro La Fenice oggi sarebbe chiuso. Il nostro modello ha salvato e consolidato i rapporti di lavoro. Non solo, ha anche permesso di creare e movimentare un mercato attorno alla musica della Fenice, attirando molti turisti con una ricaduta positiva sull'economia della città. L’interesse dei turisti ha anche risvegliato la curiosità dei veneziani e degli italiani, che i nostri dati più recenti indicano ormai come la componente più numerosa del nostro pubblico, a conferma che i soldi del contribuente sono ben spesi. Il Teatro la Fenice è una fondazione nazionale e deve proporre cultura per il territorio nazionale. Grazie al nostro modello produttivo il teatro sta continuando a farlo». 

Lei viene accusato di una gestione di fatto monocratica che rifiuta il confronto con le altre componenti del teatro. Un dialogo sociale alla Fenice non esiste? 

«Il Teatro La Fenice senza i suoi lavoratori – senza i suoi musicisti, senza i suoi tecnici, senza il personale amministrativo – semplicemente non esiste! Tutti questi posti di lavoro, queste professionalità si sono potute salvare e sviluppare proprio grazie al nostro modello produttivo. Se nel 2009 non avessimo deciso che non era il momento di chiudersi sulla difensiva ma di attaccare, avremmo perso tutti, lavoratori in testa. Abbiamo attaccato e, anche se non se lo aspettava nessuno, siamo ancora qui». 

Però di fatto la decisione della cassa integrazione l’ha presa senza un confronto con le altre componenti del teatro. È così? 

«Non è assolutamente vero che questa azione sia stata presa in maniera arbitraria. Abbiamo fatto tutto in linea con quanto stabilito dai vari decreti della Presidenza del Consiglio volta per volta. Noi abbiamo sempre seguito pedissequamente tutte le disposizioni di legge. Non è assolutamente vero che non abbiamo coinvolto i sindacati. Il problema è un altro. In tutte le altre occasioni tu devi negoziare con i sindacati ma questa volta, a causa dello stato d'emergenza, la legge ha indicato che la decisione va "comunicata". Ciò nonostante non abbiamo detto: “la cosa è così punto e basta” ma abbiamo comunicato per tempo come si stavano mettendo le cose. Quanto al FIS, il Fondo Integrativo Salariale, lo abbiamo applicato una volta che il decreto è entrato in vigore e avvisando per tempo le rappresentanze sindacali dei lavoratori del teatro. Chi sostiene il contrario fa disinformazione». 

La si accusa anche di aver usato dei toni paternalistici nelle sue comunicazioni anche personali ai dipendenti del teatro per indorare la pillola amara della cassa integrazione. 

«La mia comunicazione non era paternalistica, perché richiamava alla responsabilità e quindi a un ruolo attivo dei dipendenti. Il paternalista non vuole mai persone responsabili come interlocutori, ma, anzi, annulla ogni condivisione di responsabilità per calare magnanimamente le decisioni dall’alto. Non è il mio atteggiamento. Come ho fatto in occasione dei gravi danni prodotti dall’acqua alta dello scorso novembre o del principio di incendio in teatro di un paio di anni fa, ho ritenuto opportuno informare personalmente tutti i dipendenti, che non vedo da oltre un mese ormai».

«Abbiamo voluto anticipare la decisione per dare una prospettiva ai nostri lavoratori, che in questo momento si trovano isolati dai colleghi e dalla Fenice, la loro casa, dalla musica e vivono questa situazione di sofferenza da soli».

«Quanto alla questione cassa integrazione, ad oggi le disposizioni governative arrivano fino al 3 aprile, ma alla luce dei fatti più recenti mi sembra molto difficile. Personalmente, mi rifiuto assolutamente di dare una prospettiva di breve periodo, perché la legge così dice. Abbiamo voluto anticipare la decisione per dare una prospettiva ai nostri lavoratori, che in questo momento si trovano isolati dai colleghi e dalla Fenice, la loro casa, dalla musica e vivono questa situazione di sofferenza da soli». 

Esiste un’azione coordinata fra Fondazioni lirico-sinfoniche o ognuno fa per sé? 

«Esiste un dialogo costante con le altre Fondazioni lirico-sinfoniche attraverso l'ANFOLS. Il Teatro La Fenice ha operato esattamente a valle di una discussione e di un confronto fatto con le direzioni di tutti gli altri teatri. Con tutti i sovrintendenti, tutti i capi del personale, tutti i direttori generali, di tutte le Fondazioni, ci siamo riuniti già il 24 febbraio mattina per ascoltare tutti i pareri, compreso quello del MIBACT, per capire quale dovesse essere l'atteggiamento da tenere. E tutti insieme abbiamo convenuto che la strada era quella della cassa integrazione. Del resto la legge ci dava un indirizzo molto chiaro. La legge diceva che prima bisognava utilizzare le ferie, i permessi e altri istituti di assenza dal lavoro a stipendio pieno. La nostra decisione è stata presa a seguito di un confronto con tutte le fondazioni e nessuno ha detto che non si doveva fare. Noi siamo stati soltanto i primi a ricorrere allo strumento della cassa integrazione. In questa fase iniziale dell'emergenza ha pesato la tempistica diversa». 

Vuol dire che anche le altre Fondazioni lirico-sinfoniche italiane saranno obbligate a prendere una decisione simile? 

«Dal 23 febbraio i provvedimenti restrittivi assunti dal governo si sono progressivamente allargati a aree geografiche più vaste fino a arrivare a tutto il suolo nazionale. Con la Lombardia, la nostra regione è stata coinvolta per prima e dal 23 febbraio il Teatro La Fenice è stato chiuso al pubblico anche se abbiamo potuto continuare a provare ancora per due settimane».

«Qui la questione è arrivarci una settimana prima o una dopo. Ma ci arriveremo tutti». 

«La Fenice è stata chiusa prima di Firenze, di Roma, di Napoli, di Bari, di Palermo e anche di Torino e di Trieste. Per qualche settimana è stato un problema solo nostro, ma poi è diventato un problema di tutti e ora siamo tutti sulla stessa barca. Purtroppo quello è il percorso, se la chiusura continuerà ancora a lungo, come a oggi sembra probabile. Qui la questione è arrivarci una settimana prima o una dopo. Ma ci arriveremo tutti». 

Avete già fatto una stima delle perdite per il Teatro La Fenice a seguito della chiusura? 

«Circa un terzo delle nostre risorse viene dalla vendita dei biglietti: se azzeri gli spettatori, viene a mancare un terzo delle risorse. È molto semplice. A poco più di un mese dal 23 febbraio, cioè dalla chiusura del teatro, siamo a circa 1 milione e mezzo di euro. Aggiungo che già a gennaio abbiamo osservato una flessione significativa nelle presenze: in molte recite abbiamo venduto il 60% o 70% dei posti disponibili, percentuali decisamente basse per noi. La gente aveva già paura del coronavirus in gennaio, quando ancora il problema non era arrivato da noi. Ipotizzando che la riapertura avvenga la prossima estate, possiamo supporre una perdita intorno a 6 milioni di euro. Questa sì è una catastrofe che trova un precedente solo all’indomani di una guerra».

«Circa un terzo delle nostre risorse viene dalla vendita dei biglietti: se azzeri gli spettatori, viene a mancare un terzo delle risorse».

«Da questo punto di vista il Teatro La Fenice accusa il colpo più di altre fondazioni, che ricevono maggiori sovvenzioni da Regioni e Comuni, come Bologna o Trieste. Dico questo come pura constatazione e assolutamente non come critica a due realtà che conosco molto bene, rispetto e ammiro per la loro grande tradizione. 

Questa situazione avrà conseguenze sulla ripartizione del FUS? 

«Non per quest’anno: quanto ci spetta per il 2020 viene calcolato sulla base dell'attività del 2019. Per il 2021, secondo quanto discusso a vari livelli con il MIBACT, la quota FUS di ognuno degli spettacoli cancellati a seguito dell'attuale emergenza sanitaria dovrebbe essere erogata ma cosa succederà nel 2021 è un'incognita. Altra questione riguarda il finanziamento straordinario per tamponare l'emergenza previsto nel decreto “Cura Italia”. Da quanto so, non è ancora stata fatta la ripartizione dei fondi disponibili, non solo per le musica ma anche per il cinema, la prosa e il circo. Personalmente mi auguro davvero che si tratti soltanto di un "tenue inizio", perché non si può pensare che uno stanziamento di quella entità per le Fondazioni lirico-sinfoniche basti a corroborare la nostra sofferenza. Da nostri calcoli sommari siamo ben lontani dal danno che calcoliamo da qui alla fine dell'anno. E questo ipotizzando di poter ripartire subito dopo la fine dell’emergenza». 

Non sarà così, a suo avviso? 

«Attenzione perché questa non è l'ennesima crisi “settoriale” del mondo culturale. Tagli nella cultura ce ne sono sempre stati che hanno prodotto vertenze anche molto dure fra dirigenza e lavoratori. Ma oggi la situazione è diversa e drammatica a ogni livello. Questa è una crisi assolutamente mondiale, che ci dovrebbe spingere a non litigare su piccole cose».

«Questa non è l'ennesima crisi “settoriale” del mondo culturale».

«Non dobbiamo ragionare su una prospettiva di breve o medio periodo, ma sul dopo perché il mondo sarà un'altra cosa e tutti noi dovremo pensare a delle strategie diverse per affrontare "the day after", quando riprenderemo». 

Come se lo immagina il “day after”? 

«Intanto, speriamo di esserci tutti e per questo è fondamentale tutelare la salute di tutti quelli che in teatro ci lavorano – per questo insisto a dire che ora la priorità è stare a casa, stare a casa, stare a casa! – e speriamo di tornare con tutti i nostri organismi sani. Poi bisognerà vedere se il pubblico tornerà immediatamente. Personalmente sono già pronto a rivedere il resto della stagione post-estiva, perché quello annunciato rifletteva lo stato di una Fenice "in salute" e di un mondo in salute». 

Sarà anche la fine del pareggio di bilancio, uno dei pilastri del modello Fenice? 

«Quando sottolineiamo l’importanza del “pareggio di bilancio” veniamo sempre tacciati di voler essere i secchioni ma non è questo il punto. È proprio il pareggio di bilancio la prima cosa che va a beneficio dei lavoratori e della salvaguardia dei posti di lavoro. Quando i conti non tornano, si corre il rischio di dover subire una serie di condizionamenti e di declassamenti che nel tempo peggiorano le condizioni dei lavoratori». 

Sono in molti a prevedere una crisi economica molto severa nei mesi a venire. Come vi preparate? 

«Non mi faccio illusioni, ci vorrà molto tempo per riportare il pubblico in sala, senza contare che saranno in molti a non potersi più permettere un biglietto. È fondamentale riflettere su come ci dobbiamo porre quando potremo riprendere il nostro lavoro e su come dobbiamo ricominciare, su come dovranno essere le nostre strategie di comunicazione, ma anche i nostri cartelloni. L'unico precedente al quale riferirsi è il secondo dopoguerra: quando i teatri riaprirono c’erano file ovunque, in tutti i teatri d'Italia. Allora, però, il riconoscimento dell’opera era ben diverso. Oggi, in piena emergenza sanitaria, è il momento di sentirci vicini alle persone che stanno rischiando la vita per noi, medici e personale sanitario innanzitutto, e a chi è malato o a chi ha perso gli affetti più cari. Per il dopo, noi italiani dovremo tornare alla nostra essenza di cultura e ritrovare l'essenza di questo teatro d'opera che per secoli è stato parte del sangue di noi italiani. Da lì dovremo ripartire senza dare però nulla per scontato». 

«Ci vorrà molto tempo per riportare il pubblico in sala, senza contare che saranno in molti a non potersi più permettere un biglietto».

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Articolo in collaborazione con Fondazione Ferruccio Busoni Gustav Mahler