Quattro sguardi diversi sul “Ring” wagneriano 

Al Badisches Staatstheater di Karlsruhe va in scena una Tetralogia affidata a quattro registi diversi 

Der Ring des Nibelungen (foto Matthias Baus)
Der Ring des Nibelungen (foto Matthias Baus)
Recensione
Karlsruhe, Badisches Staatstheater
Der Ring des Nibelungen
05 Maggio 2018 - 12 Maggio 2018

 Più che Ring der Vielfalt, ossia della molteplicità, quello di Karlsruhe si sarebbe potuto battezzare Ring der Entweihung, della dissacrazione, o magari der Entmythisierung, della demistificazione. La molteplicità si riferisce alla decisione di non affidare a un solo team creativo le quattro opere del ciclo wagneriano, ma a quattro team diversi con assoluta libertà creativa. Idea interessante ma non nuova: la sperimentò all’inizio del millennio il sovrintendente Klaus Zehelein a Stoccarda che chiamò Joachim Schlomer, Christoph Nel, Sergio Morabito e Jossi Wieler, e Peter Konwitschny per l’impresa. L’operazione fu apprezzata e qualcuno scrisse che “così decostruito, Wagner è meno totalitario e più drammatico” (Financial Times). Per renderlo ancora meno totalitario – ma decisamente meno drammatico che d’abitudine – ci hanno provato i quattro giovani registi di Karlsruhe. Qualcuno è alle prima esperienza con il teatro wagneriano e uno è già in partenza per il Lohengrin della collina verde la prossima estate, ma tutti sembrano ispirati da una certa iconoclastia nei confronti del mito wagneriano. E a questo proposito non si può non notare che in quella direzione vanno anche i due programmi di contorno offerti dal Badisches Staatstheater nei giorni di riposo del Ring, ossia lo sberleffo ai miti fondatori de Die lustigen Nibelungen di Oscar Strauss e le ombre scure del post-wagnerismo di Wahnfried di Avner Dorman.

Apre David Hermann con un Rheingold che non si scosta troppo dall’onesta routine che passa regolarmente per i teatri tedeschi di medio livello. Anche la chiave visiva scelta dallo scenografo Jo Schramm e dalla costumista Bettina Walter rinforza quel senso di déjà (trop) vu che evocano gli dei in abiti borghesi in asettici interni borghesi. Più originale invece l’idea di sovrapporre alla trama del prologo una sintesi delle tre giornate per flash recitati da mimi – l’anellino nell’Anello – un’idea certo non estranea al tessuto dei leitmotiv wagneriani con i loro continui richiami tematici alle vicende trascorse e a quelle che verranno. Coerente anche l’idea di far aprire e chiudere simmetricamente con l’immagine di Erda che getta l’anello nelle acque del Reno, dopo che anche il racconto parallelo si chiude sul finale trionfale dell’ingresso degli dei nel Walhalla mentre sotto già arde il grande rogo. Tutto il resto, però, lascia poca traccia.

Das Rheingold – regia di David Hermann 

Molte proiezioni per la visivamente interessante Die Walküre firmata da Yuval Sharon (quello in partenza per Bayreuth): un diverso concept per ognuno dei tre atti che sembra più orientato a stupire, anche per via di un certo autocompiacimento estetico, che a creare un coerente impianto drammatico. Per il primo atto la scena di Sebastian Hannak presenta una parete animata da proiezioni video con tre porte, che si aprono e chiudono di continuo per rivelare bufere di neve o agnizioni dal passato dei gemelli incestuosi Sieglinde e Sigmund, quando non mostrano strumentisti strappati all’orchestra per metterne in rilievo gli assoli. Per il secondo atto è una grande scala semovente che sale al Walhalla contro una parete dorata e anche in questo caso le proiezioni aiutano a ricapitolare le puntate precedenti nel monologo di Wotan. Il terzo atto si apre ancora con una proiezione sul sipario chiuso di uno stormo di valchirie in tuta arancione su motociclette volanti (che fa pensare alle perverse virago dei film di Russ Meyer) che atterrano in un paesaggio polare. È fra i ghiacci che Wotan invoca le fiamme di Loge per difendere Brünnhilde, che viene bislaccamente ibernata in un grande blocco di ghiaccio. La compulsione all’originalità provoca mostri. 

Die Walküre –regia di Yuval Sharon 

È una specie di Truman Show in un set che sembra immaginato da un disegnatore di fumetti horror il Siegfried secondo Thorleifur Örn Arnarsson in combutta con la fantasia macabra dello scenografo Vytautas Narbutas. Mime è un mostro deforme, Siegfried un bambino capriccioso che cambia continuamente T-shirt, mentre Wotan/Wanderer li osserva su una parete di monitor prima di vestirsi come il mago Gandalf e calarsi anche lui nel set. Di uccellini ce ne sono tre ma Siegfried sceglie quello che gli ricorda la madre che non ha mai conosciuto. E, grazie ai suoi suggerimenti, l’eroe bambino rompe il teatrino allestito da Mime e entra nel mondo adulto. Eliminato l’immaginario mostruoso, tuttavia, resta davvero poco della regia che abbandona l’inane Siegfried in balia di un’imponente quanto minacciosa Brünnhilde, che la costumista Sunneva Ása Weisshappel addobba come fosse una visione deformata delle valchirie storiche. 

Siegfried – regia di Thorleifur Örn Arnarsson 

Le sorprese non sono ancora finite: il Götterdämmerung firmato da Tobias Kratzer è una fucina di gag tanto spiritose quanto estemporanee, che mascherano a malapena un fiato drammaticamente corto. Per cominciare, sedute davanti a un “The end” stampato su un grande sipario, le tre norne altro non sono che i tre altri colleghi registi del Kratzer e hanno l’aria di non saper come uscire dall’intricata matassa del Ring, che loro stessi hanno imbrogliato. E poiché qui un bel gioco dura molto, i tre restano più o meno sempre in scena assumendo via via le sembianze di Gutrune (il finto Hermann) e poi le tre figlie del Reno sempre sedute sulle classiche sedie da regista, finché nel finale Brünnhilde li caccia bruciando nel rogo le loro cose e riavvolge il corso degli eventi fino a ritrovare il suo Siegfried nel letto prima dell’avventura gibicunga (e a quel punto butta il disgraziato anello e si gode l’eroe). The end. 
Il bello è che Tobias Kratzer avrebbe delle indubbie qualità come si vede nelle grandi scene corali a palcoscenico praticamente vuoto (lo scenografo Rainer Sellmaier concede solo dei contenitori a specchio per il reame di Gunter e una cameretta stile Ikea per l’alcova di Brünnhilde), ma sembra più che altro incline alla goliardata. E allora giù con Hagen che si evira platealmente come il padre Alberich per evitare ogni tentazione amorosa e compiere con successo la missione, con Siegfried assassinato con uno spiedo durante un allegro barbecue fra Gibicunghi, e giù fino alla trovata della Brünnhilde regista. 

Götterdämmerung – regia di Tobias Kratzer 

Meno male che nella fossa si è preso Wagner un po’ più sul serio. Nel complesso è riuscita la realizzazione musicale, che ha visto sul podio della Badisches Orchester, compagine di elevata qualità confermate anche in questa occiasione, il direttore musicale del teatro Justin Brown per l’intero ciclo. Qualche perplessità nel Rheingold soprattutto per un suono orchestrale poco presente, il direttore recupera sulla distanza e si fa apprezzare specialmente per la cura della preziosa dimensione cameristica di molti episodi del Ring, troppo spesso sepolta sotto i decibel del tonitruante epos wagneriano. Se è certamente ammirevole la capacità del teatro di Karlsruhe di mettere in scena il ciclo wagneriano contando in gran parte sulle voci del proprio ensemble (e soprattutto i ruoli minori funzionano perfettamente), va detto che non mancano le ombre soprattutto fra i ruoli maggiori. La giovane Heidi Melton, servita al limite della crudeltà mentale dai costumisti di questo Ring, ha certamente i mezzi per affrontare un ruolo pesante come Brünnhilde (ed è sempre lei per tutte e tre le giornate) ma la zona acuta è spesso fuori controllo sfiorando pericolosamente l’urlo e anche l’intonazione non è sempre impeccabile, vedasi specialmente nel massacrante duettone del finale di Siegfried. Al suo fianco c’era Erik Fenton, improbabile Siegfried, che, dopo due atti dignitosi, tentava l’impossibile fallendo nel terzo per via di mezzi vocali troppo fragili. Molto meglio invece il Siegfried del GötterdämmerungDaniel Frank, “Heldentenor” capace di delicatezze liriche e di variare il fraseggio. Doppio interprete anche per Wotan, che nel Rheingold era Nathan Berg, non un peso massimo wagneriano ma funzionale specie al disegno scenico, mentre Renatus Meszar assumeva il ruolo per le altre due giornate, convincendo più nei tormenti del Wanderer che nella furia della Walküre. In tutti e tre gli episodi Jaco Venter dava un ritratto nel complesso riuscito di Alberich, mentre Matthias Wohlbrecht rendeva efficacemente i due ruoli di Loge nel Rheingold e Mime nel Siegfried senza esagerare con la caricatura. Infine, prima dello sterminio della dinastia gibicunga in un elisabettiano bagno di sangue voluto dal regista Kratzer, Armin Kolarczyk disegnava un Gunther particolarmente tormentato, Konstantin Gorny un Hagen in burocratica grisaglia particolarmente sinistro e Christina Niessen una Gutrune particolarmente fatua. 

Un Ring è sempre e dovunque un evento che il pubblico non diserta, come anche in questa occasione. E a Karlsruhe salutava con applausi generosi (fin troppo) ognuno degli episodi della saga.