L’Iguana esce di scena (forse)

Il nuovo album Post Pop Depression potrebbe essere l’ultimo per Iggy Pop

Iggy Pop Post Pop Depression recensione
Disco
pop
Iggy Pop
Post Pop Depression
Loma Vista
2016

È l’unico superstite della trimurti “maledetta” che negli anni Settanta simboleggiava l’idea stessa del rock come forma d’arte scapestrata ed esistenzialista. Morti Lou Reed e David Bowie, Iggy Pop sente probabilmente il peso di una responsabilità che non ha più intenzione di sostenere. Intervistato da un radio statunitense alla vigilia della pubblicazione del disco nuovo, infatti, ha affermato: «Ho la sensazione che dopo questo smetterò». In prossimità dei 69 anni, molti dei quali vissuti “pericolosamente”, lo si può capire. E del resto, s’interroga in modo retorico durante “In the Lobby”, ballata a dire il vero un po’ involuta: “Che problema c’è se sparisco?”. Definitivamente archiviato il capitolo Stooges con Ready to Die (2013) e reduce da prove individuali non esattamente memorabili (la doppietta francese costituita da Préliminaires e Après, datati rispettivamente 2009 e 2012), ha maturato forse la consapevolezza di un incipiente declino. E allora basta: meglio cercare di chiudere i conti in maniera dignitosa. Per farlo, si è rivolto a uno dei migliori artigiani rock in circolazione, Josh Homme, leader dei Queens Of The Stone Age, implicato inoltre negli ormai – loro malgrado – celebri Eagles Of Death Metal, che ha prodotto l’album e suonato da par suo la chitarra, affidando la ritmica a Dean Fertita (lui pure “regina preistorica”) e Matt Helders (batterista dei britannici Arctic Monkeys).

Ancorché confezionato nello studio di Homme, situato ai margini del deserto del Mojave, in California, Post Pop Depression sembra voglia alludere al dittico berlinese realizzato dall’Iguana insieme a Bowie, The Idiot – soprattutto – e Lust for Life. Lo conferma “German Days”, episodio anch’esso piuttosto irrisolto. Altri sono gli apici del lavoro: ad esempio “Gardenia” (rituale di corteggiamento di una black girl speculare alla China Girl vagheggiata nel 1977 nei panni dell’Idiota), dal tono sensuale e decadente. Oppure due canzoni da cui filtrano impercettibili fragranze esotiche, l’ombrosa “American Valhalla” (in coda alla quale un disincantato Iggy borbotta: “Non sono altro che il mio nome”) e la conclusiva “Paraguay” (qui invece lo ascoltiamo inveire: “Sto male!/Ed è colpa vostra!/E da adesso avrò cura di me stesso!”), mentre in “Vulture” va in scena un melò dai timbri semiacustici posizionato dalle parti di Nick Cave e “Chocolate Drops” distilla un’altra amara razione di cinismo (“Quando tocchi il fondo, sei vicino alla vetta/La tua merda si trasforma in gocce di cioccolato”). Che rappresenti o meno un passo d’addio, si tratta di un disco circonfuso da un’aura di virile malinconia: avvisaglia della depressione del dopo (Iggy) Pop, “l’ultimo degli inimitabili”, a detta di Homme.

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