La vera storia di William Onyeabor

Il misterioso prete-tastierista maestro dell'afro-funk, che fu lanciato da David Byrne, è morto all'età di 70 anni

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Tutto è cominciato con un brano inserito in una raccolta: “Better Change Your Mind”, sgangherato inno pacifista che la Strut Records scelse per la monumentale Nigeria 70: The Definitive Story of 1970's Funky Lagos.

All'epoca, parliamo del 2001, erano in pochi ad aver dimestichezza con l'afrobeat, e ancora meno ad aver incrociato i passi di William Onyeabor. Tipo sfuggente e bizzarro, stando alla mini biografia scritta allora da Quinton Scott (uno dei padri della Strut) e dal critico John Armstrong. Nelle note di copertina i due raccontano di una trasferta in Unione Sovietica a metà dei Settanta per studiare da cineasta, del ritorno in patria qualche anno dopo e del successivo varo della Wilfilms, nata come casa di produzione (una sola pellicola all'attivo, Crashes in Love, che ovviamente nessuno ha visto) e diventata poi un'etichetta. Poco altro: il clou della carriera tra la fine dei Settanta e la seconda metà degli Ottanta, una passione sfrenata per drum machine, tastiere, sintetizzatori, e un paio di hit baciate dal successo. In particolare “Atomic Bomb”, pubblicata nel '78 sull'omonimo album (lo stesso di “Better Change Your Mind”), il secondo degli otto dati alle stampe.

E poi? E poi il ritiro dalle scene: da cantante-tastierista-produttore a ministro di una chiesa evangelista nella sua Enugu, cinquecento chilometri a est di Lagos. Niente più dischi, niente più musica. Solo preghiere, messe, raduni e una florida azienda di famiglia che si occupa di farine e vive di commesse statali. Mica male come parabola umana e artistica: il perfetto ritratto del potenziale musicista di culto. E infatti il circolino dei cacciatori di tendenze si è subito messo al lavoro. Di qua e di là dell’Atlantico, DJ, blogger e collezionisti (in prima fila il santone Duncan Booker, «the man who saved African funk» secondo il Guardian) hanno iniziato a scrivere e a diffondere il verbo, in un crescendo di attenzione e seguito.

Fino al botto, alla consacrazione. Ovvero la discesa in campo del novello Re Mida David Byrne, il dispensatore di coolness per antonomasia. È stato l'ex Talking Heads, attraverso la fedele Luaka Bop, a piazzare la spallata decisiva: prima rispolverando “Better Change Your Mind” per Love's A Real Thing, terzo volume della serie World Psychedelic Classics – anno di grazia 2005; poi assoldando il blogger Uchenna Ikonne, spedito a Enugu – siamo all'inizio del 2008 – con una missione ben precisa: rintracciare Onyeabor e cucirgli addosso un'antologia.

Facile a dirsi, un po' meno a farsi. Al volenteroso Ikonne sono serviti nove mesi solo per localizzare il rifugio del nostro eroe (una spettrale villa bianca con una vecchia Mercedes stabilmente posteggiata di fronte all'ingresso) e la bellezza di due anni per assicurarsi la liberatoria sui diritti, arrivata al termine di un'estenuante slalom tra curiosi diktat e assurde pretese: nessuna intervista, nessuna domanda sul passato, nessun commento ai brani, niente fotografie più o meno recenti. Una faticaccia, ma alla fine il cerchio si è chiuso. Anche grazie all'intervento di Eric Welles Nyström, label manager della Luaka Bop, volato in Nigeria per stringere la mano al prete-tastierista («era diventata un'ossessione: dovevo conoscerlo») e sistemare tutti i dettagli prima di affidare il lavoro in studio (anche) al mago Kieran Hebden, alias Four Tet, uno che in quanto a coolness non ha niente da imparare.

Qualche settimana dietro al mixer a Londra, gli ultimi aggiustamenti in quel di New York e finalmente il traguardo. Who Is WilliamOnyeabor? esce nell’ottobre del 2013 e va subito a bersaglio. Time Magazine lo inserisce tra i migliori cinque dischi dell'anno, Pitchfork lo piazza al primo posto tra le ristampe, la National Public Radio lo infila ai piani alti della Top 50; si scomodano persino lo schizzinoso "New Yorker" e il "Times", che dedica un lungo articolo al più «elusivo e misterioso» dei musicisti.

E si badi bene: al musicista, non alla musica. Perché delle nove tracce in scaletta, dalla danzereccia "Body & Soul" alla funkeggiante "Fantastic Man", sono in pochi a curarsi. Giusto un accenno alla singolarità degli arrangiamenti, all'uso dei sintetizzatori, all'elettronica un po' naif, alla fatale attrazione per le atmosfere disco. Notazioni di maniera. A rubare la scena sono il personaggio e le sue stranezze. D'altronde la storia è di quelle che vale la pena raccontare.

Se ne accorge anche "Noisey", sito affiliato alla rivista "Vice", che sull'onda del successo di Searching for Sugar Man, il documentario premio Oscar dedicato al redivivo Sixto Rodriguez, ingaggia il regista inglese Jake Sumner (figlio di Sting) per tentare qualcosa di simile. Il risultato è Fantastic Man, che in mezz'ora abbondante celebra il genio del più oscuro degli artisti oscuri, arrivando a bussare al portone della villa di Enugu e aggiungendo una nuova sequela di dettagli sfiziosi: una sparatoria, il carattere poco incline alle discussioni, l'inspiegabile disponibilità di grosse somme di denaro in un paese sul lastrico. Tra gli intervistati un'entusiasta Damon Albarn, che parlando di Onyeabor si spertica in complimenti e superlativi. Coolness che si aggiunge alla coolness.

Fine della storia? Manco per idea. David Byrne ha un ultimo asso nella manica: una tribute band, lanciata in diretta Tv al Tonight Show di Jimmy Fallon. Sul carrozzone, oltre allo stesso Byrne, salgono il quarto Beastie Boy Money Mark, Alexis Taylor degli Hot Chip, Pat Mahoney degli LCD Soundsystem, Kele Okereke dei Bloc Party, Dev Hynes-Blood Orange e il sassofonista Joshua Redman. L'allegra combriccola si esibisce a New York, Los Angeles, Londra e Copenaghen. Applausi per tutti, t-shirt celebrative, nuove luccicanti ristampe (rigorosamente solo in vinile) e persino una gigantografia di Onyeabor lungo Sunset Boulevard. Ce n'è più che a sufficienza per convincere la BBC a organizzare un'intervista radiofonica, concessa dal nostro grazie ai buoni uffici di Byrne, e per attirare l'attenzione di Jovanotti, che dalle pagine dell'inserto domenicale del "Sole 24 Ore" favoleggia di trasferte milanesi e di abiti su misura e sintetizzatori comprati in Italia.

Ma al netto dei lustrini cosa resta? La musica, certo (il dischi comprateli, ne vale la pena). Ma anche una strana sensazione, la quasi certezza che l'epopea abbia ingoiato tutto il resto. Non che esista una purezza da difendere, un'autenticità africana da tenere al riparo dalle zampacce di noialtri occidentali; il mito del perfetto filologo è stato sbugiardato da un pezzo. Il problema caso mai è il grado di furbizia, la scientificità con la quale si agghinda il prodotto. La vicenda Sixto Rodriguez in tal senso è emblematica. Frotte di curiosi si sono lasciate sedurre dalla parabola del ripescato, l'artista dimenticato in credito con la storia. Un personaggio che funziona sempre. Ma anche quanto è successo ai maliani Tinariwen, trasformati in fenomeni di culto dalle morbose attenzioni di Chris Martin e Thom Yorke, o quanto sta succedendo al chitarrista del Niger Bombino, tirato a lucido dal malizioso Dan Auerbach (voce dei Black Keys), la dice lunga sull'insano rapporto tra la cosiddetta world music e il brulicare delle mode, pilotato – più o meno lucidamente – dagli animatori del gusto. Il prete-tastierista Onyeabor non è stato il primo e di sicuro non sarà l'ultimo.

Ora è arrivata al mondo la notizia – tramite la Luaka Bop e la newsletter di David Byrne – che William Onyeabor è morto, a casa sua in Nigeria. Byrne gli ha dedicato un lungo necrologio, ha ricordato i suoi «dischi sorprendenti (nessun altro musicista africano usava i sintetizzatori a quell'epoca)», i suoi testi impegnati e le sue ambizioni imprenditoriali: Onyeabor – ha scritto Byrne – «continua a ispirare musicisti e fan in tutto il mondo». Celebrato per la sua assenza in vita, che succederà a William Onyeabor ora che non c'è più?

La prima versione di questo articolo è stata pubblicata sul "giornale della musica" nel settembre del 2014

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