Violanta, o dell’imperscrutabilità del desiderio
Prima italiana al Teatro Regio di Torino per l'opera di Korngold diretta da Steinberg
Capita purtroppo di rado nei teatri italiani di ascoltare un’opera nuova. Violanta composta da Erich Wolfgang Korngold diciassettenne e andata in scena per la prima volta allo Hoftheater di Monaco nel 1916, è alla sua prima italiana. È l’opera di un enfant prodige e andava senza ombra di dubbio recuperata: è sinora il titolo più interessante che ha offerto il Regio di Torino in questa stagione. Korngold, allievo di Zemlinsky ed elogiato da Mahler per le sue qualità, crebbe in un ambiente culturale fecondissimo, di cui ha saputo genialmente succhiare tutto il meglio (Wagner, Debussy, Richard Strauss, Schönberg), rifondendolo con originalità nella sua opera.
Quello che manca al libretto di Hans Müller (ma non alla musica) è la caratterizzazione psicologica dei personaggi, a volte labile: la storia, ambientata a Venezia, è quella di Violanta che chiede all’algido marito Simone Trovai di far fuori Alfonso, il seduttore della sorella Nerina, poi suicidatasi, causa del suo infinito dolore e della sua rovina famigliare.
La regia di Pier Luigi Pizzi ambienta l’opera non nel Rinascimento, ma negli anni ’20, insistendo soprattutto sull’ambiguità erotica/identitaria del Carnevale veneziano, periodo in cui si svolge la vicenda. La scelta in generale è azzeccata (tranne quella di mostrare già come in un flashforward Violanta struggersi, a sipario aperto, durante l’ouverture), anche se il velluto rosso che mima il bordello di lusso di Eyes Wide Shut, rende Violanta assai più consapevole del proprio potere seduttivo e femme fatale che non vittima (o forse complice?) di quel manipolatore professionista di Alfonso, figlio illegittimo del Re di Napoli. Interessante che fino alla sua entrata in scena tutti i personaggi, come ad esempio la bravissima nutrice Barbara (Anna Maria Chiuri) e poi lo stesso marito, offrano la loro versione dell’identità di Violanta (si strugge per la sorella morta? Oppure ha degli amanti e folleggia?), credendo intimamente di conoscerla, per poi rimanere tutti – marito compreso – sconfessati nel finale a sorpresa. La scena è dominata da un grande buco nero, sul fondo della scena, riempito dall’oscurità del mare, placidamente attraversato dal profilo di gondole argentee, e dagli echi lontani dei veneziani interpretati dal coro del Teatro Regio, come sempre magnificamente istruito da Andrea Secchi. Dal buco nero, via via vanno e vengono, dall’altrove – letteralmente – al qui e ora, Giovanni Bracca (Peter Sonn) il cinico pittore gozzovigliante, e lo stesso Alfonso (e apparire in scena da così lontano non giova purtroppo all’emissione vocale dei cantanti). Ciò crea uno strano e interessante cortocircuito: quando monta l’angoscia dell’arrivo del tanto atteso Alfonso – il quale fin da subito si rivelerà un debole e un uomo ferito, ma anche un narcisista da manuale, bravissimo nel far la parte della vittima –, a tratti sembra di assistere alla Donna del mare di Ibsen.
Il cast vocale è omogeneo: Annemarie Kremer, soprano, affronta con spirito l’impegnativo ruolo della protagonista e ha il giusto physique du rôle, ma avremmo forse voluto maggiore bellezza nella tessitura acuta, Michael Kupfer-Radecky, baritono (Simone), è un buon compagno di sventura, il suo canto è squadrato e marmoreo come si conviene al militare senza sentimento qual deve essere; e la vocalità quasi verista del personaggio di Alfonso, interpretato da Norman Reinhardt, tenore, è ben resa. La direzione di Pinchas Steinberg, adepto di Korngold, nonché tra gli interpreti del suo Concerto per violino, ne dà una lettura convincente, a tratti un poco statica: l’Orchestra del Regio è stata preparata con l’attenzione e la meticolosità che merita un’opera di questo livello musicale. Una particolare menzione meritano gli straordinari costumi dello stesso Pizzi (con l’assistenza di Lorenza Marin): sono letteralmente da manuale, uno studio colto, raffinato e sensuale della moda di inizio Novecento. Gli spettori non mancheranno di cogliere un sicuro e perfetto riferimento cinematografico quando Alfonso – il quale sempre lega a doppio nodo morte e amore, meschinità e afflati (sinceri?) del cuore: ʺLa morte è per me un vecchio compagno di gioco. Ma venir disprezzato là dove amo saria per me velen e non buon vino per il sonnoˮ – entra in scena con un mantello identico a quello indossato dal Casanova di Fellini, opera di Danilo Donati (premio Oscar 1977).
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Apprezzate le prove di Chailly, Netrebko, Tézier e del coro, interessante ma ripetitiva la regia di Muscato