Torino: il ritorno di Francesca da Rimini
L’opera di Zandonai inaugura la stagione del Regio a 111 anni dall’esordio
11 ottobre 2025 • 3 minuti di lettura
Teatro Regio Torino
Francesca da Rimini
10/10/2025 - 23/10/2025Il 10 ottobre il Teatro Regio di Torino ha inaugurato la stagione «Rosso» 2025/2026 con Francesca da Rimini, opera di Riccardo Zandonai nata al Regio nel 1914, rimasta in circolazione fino all’incirca al secondo dopoguerra e da allora sempre meno eseguita. Si tratta una tappa fondamentale per capire i rapporti tra la musica italiana e la cultura europea intorno alla prima guerra mondiale. Il libretto di D’Annunzio è un perfetto esempio del clima intellettuale decadente; oggi è pressoché incomprensibile se non si è accademici della Crusca, zeppo com’è di «guarnacchino», «arcadore», «caendo», «imbertescata» e altre dannunzianate. Ma è sufficiente sapersi orientare nell’episodio dantesco di Paolo e Francesca per godere di una musica ricchissima di idee, che in certe preziosità armoniche dialoga alla pari coi coevi Strauss e Debussy, e con un canto declamato che anticipa il Puccini più avanzato della Rondine e del Trittico. Con questa scelta, che si pone idealmente sulla scia della Juive (2023) e del progetto Manon Manon Manon (2024), il Teatro Regio conferma la sua missione di fare luce sui margini del canone, portata avanti con una cura esemplare.
Il successo della serata si deve innanzitutto al direttore d’orchestra, alla sua prima inaugurazione in veste di direttore musicale del Teatro. L’amore che Andrea Battistoni prova per questa partitura si avverte a partire dalla resa dei vari magici soli strumentali, figli della notte d’amore del Tristano di Wagner, fino ai violenti scatti veristici, passando per tutta una infinita gamma di colori e sfumature che effondono luxe, calme et volupté. I tempi, perfettamente adeguati alle situazioni, erano sempre attenti al rilievo della parola, anche inespressa. Una caratteristica della Francesca è che la drammaturgia, talvolta, consiste nell’indugiare tra le coltri della musica. L’esempio perfetto è il finale del primo atto, che Battistoni dice di considerare (e come dargli torto) uno dei vertici dell’opera: Paolo e Francesca si vedono per la prima volta, le parole non bastano a dire cosa provano e tutto il loro sentimento è cantato dall’orchestra e da un coro soffuso fuori scena, per minuti e minuti. Qui Battistoni ha dato il meglio di sé: il risultato era un sogno a occhi aperti.
Altro grande merito va ai cantanti. Roberto Alagna (Paolo) è uno dei più grandi tenori viventi: in freschezza del timbro, potenza, proiezione, elasticità, limpidezza della dizione e capacità di recitare con il canto, pochi lo eguagliano. Uno di questi è il bravissimo Matteo Mezzaro (Malatestino). Barno Ismatullaeva (Francesca) ha sostenuto con appropriatezza la sua parte, ma ha tutte le qualità vocali per metterci, se vuole, più personalità, più istinto, già alle prossime recite. Bravi anche George Gagnidze (Gianciotto), Valentina Boi (Samaritana) e i tanti comprimari che purtroppo non abbiamo spazio di nominare.
L’impianto della regia, di Andrea Bernard, non era niente di nuovo: riambientazione della vicenda in un’altra epoca (seconda metà dell’Ottocento, dicono le note di regia), interno borghese freddo e vuoto, servitù onnipresente, controfigure bambine dei protagonisti, e così via. Forse questo modo di concepire la regia ha ormai esaurito le possibilità del suo linguaggio. Il valore di Bernard e della sua squadra sta invece nell’invenzione di tante immagini forti, che restano impresse, come il giardino in cui Paolo e Francesca si conoscono o il gancio cui Malatestino appende un panno insanguinato dopo aver aizzato all’omicidio Gianciotto. La recitazione dei solisti e del coro era alterna, ma nei momenti migliori arrivava a naturalezza e persino sottigliezza. Gli applausi convinti di una sala stracolma hanno decretato il successo di una produzione da non perdere.