Un’orchestra arrivata in Italia dalla città dell’esercito di terracotta

Un concerto diretto da Donato Renzetti ha inaugurato a Roma l’anno dedicato alla Via della Seta

Donato Renzetti
Donato Renzetti
Recensione
classica
Roma – Parco della Musica – Sala Santa Cecilia
Orchestra Sinfonica di Xi’an
22 Novembre 2018

Mentre la sua orchestra è in estremo oriente per dieci concerti col suo direttore Antonio Pappano, l’Accademia di Santa Cecilia presta la sua grande casa da 2.800 posti all’Orchestra Sinfonica di Xi’an, che è venuta a Roma con un direttore italiano per l'inaugurazione dell'anno dedicato alla Via della Seta (e lo stesso programma sarà ripetuto a Milano il 24 novembre)

Forse qualcuno ricorda il nome di Xi’an per l’esercito di terracotta che vi è stato scoperto, ma non molti sanno qualcosa della sua storia di capitale della Cina durante ben tredici dinastie e del suo presente di città moderna di quasi nove milioni di abitanti. Ma quel che ora ci interessa è la sua orchestra, composta interamente da giovani, tranne un paio di eccezioni, non perché sia un’orchestra giovanile ma perché è stata fondata soltanto pochi anni fa. E come non c ‘è orchestra occidentale in cui non ci sia qualche orientale, così in questa orchestra orientale figura qualche strumentista occidentale.

Il primo brano in programma è la Sinfonia della Gazza ladra e fin dal rullo di tamburo iniziale si capisce che questa sarà un’esecuzione robusta. Gli strumentisti infatti o ignorano che questa è un’opera buffa (ok: è semiseria non buffa, ma l’attacco della sinfonia è proprio nello stile buffo) o ritengono che suonare con energia sia comunque un fatto positivo. Però l’orchestra è precisa, non ci sono sbavature (qualche sonorità un po’ aspra dei corni non può essere definita un errore) e in definitiva dal punto di vista tecnico non le si può rimproverare nulla, anzi molte orchestre italiane e non solo italiane avrebbero qualcosa da imparare. Questi giovani strumentisti pagano però la loro inesperienza, poiché probabilmente il problema è che non conoscono Rossini: se avranno modo di essere diretti altre volte da un esperto rossiniano qual è Donato Renzetti, capiranno sicuramente come va suonato. Già ora certi passaggi velocissimi in punta d’arco dei violini vengono veramente molto bene, leggeri, limpidi ed eleganti e lasciano capire che saprebbero suonare con tutta la necessaria brillantezza. 

Dopo Rossini si passa, con un salto all’indietro di oltre mille anni, a Wang Wei, uno dei più grandi poeti cinesi, un cui testo è stato anche usato da Mahler in Das Lied von der Erde. Un attore vestito in abito tradizionale - è Yang Yi, molto noto in Cina - legge una poesia di quel classico della letteratura cinese, Passando accanto al tempio Xiang Ji: più esattamente, non la legge ma laintona con una specie di recitar cantando, su un accompagnamento molto discreto dell’orchestra, quasi sempre soltanto il pizzicato degli strumenti ad arco, come un unico grande liuto, cui si aggiungono leggeri interventi “atmosferici” delle percussioni e un epilogo del flauto di bambù, suonato dallo stesso Yang Yi. Non sappiamo se sia uno stile tradizionale di leggere la poesia o se sia una creazione di Yang, ma quel che è certo è che questa lettura intonata è molto suggestiva, perfino magnetica, e che se ne resta soggiogati, pur senza capire ovviamente una parola.

Non poteva mancare Tan Dun, il compositore cinese più noto in occidente, grazie anche alle sue musiche per il cinema, che gli hanno fatto vincere un Oscar, e a quelle per le Olimpiadi di Pechino. Molti, che magari stravedono per la world music e altri generi commerciali, si permettono di accusare Tan per la sua musica semplice e popolare (ma raffinata, bisogna riconoscerlo) e per il suo ibridare la musica tradizionale cinese con la musica colta occidentale. Personalmente non sono d’accordo con tali critiche, ma devo riconoscere che questo suo Concerto per pipa (strumento cinese simile al liuto) e orchestra interessa soprattutto per la sonorità dell’insolito strumento solista (lo suonava Lan Weiwei, bravissima, per quel che posso capirne), ma a lungo andare l’interesse diminuisce e lascia il posto a una certa monotonia. 

La pièce de résistence del concerto è la Quinta Sinfonia di Ciajkovskij. Nel complesso l’orchestra appare trasformata, nettamente migliore che in Rossini. È vero che ci sono momenti un po’ tirati via, puliti e precisi, ma un po’ generici come interpretazione: sembrerebbe che Renzetti abbia avuto poco tempo per le prove e sia stato costretto a scegliere cosa curare di più e cosa invece trascurare, ma questa è solo una supposizione. Ma altri momenti sono eseguiti ad altissimo livello. Bello l’attacco del primo movimento. Lasciano incantati certi passaggi dei violini lievi e colorati come una seta preziosa, che ci ricordano che l’autore di questa Sinfonia è lo stesso che ha scritto La bella addormentata.Degna di una grande orchestra la prima parte del secondo movimento, con gli strumenti ad arco gravi perfettamente calibrati per ottenere il punto giusto di patetico vibrato e di colore cupo. Nel movimento finale non c’è bisogno di scegliere qualche momento, tutto è splendido. L’orchestra intera suona benissimo, con una menzione speciale per gli archi tutti, i legni (soprattutto quelli gravi, fagotti e clarinetti) e ottoni (in questo caso soprattutto quelli acuti, le trombe). Dopo averci messo un bel po’ a scaldarsi (d’altronde, come ci hanno fatto notare, i musicisti non avevano ancora potuto smaltire la differenza di fuso orario, cosicché  alle venti, quando il concerto è iniziato, per loro erano le quattro di notte) l’orchestra si è dimostrata di ottima qualità e anche l’interpretazione di Renzetti è potuta apparire nella giusta luce, rivelandosi trascinante ma controllata in questa pagina in cui tanti si gettano a capofitto e perdono la bussola, facendola apparire sconnessa, vacua ed enfatica. Il pubblico, che fino ad allora non si era scaldato molto, ha applaudito più che calorosamente e molto a lungo, finché non ha ottenuto due bis. Non identificato il primo: probabilmente una melodia tradizionale cinese in un’elaborazione in stile musica da film. Il secondo la Danza russa (un trepak) dello Schiaccianoci di Ciajkovskij.

 

 

 

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