Una Turandot trionfale a Santa Cecilia

Pappano, Radvanosvky, Kaufmann, Orchestra e Coro protagonisti di un’esecuzione senza confronti dell’ultima opera di Puccini

Turandot (Foto Musacchio e Ianniello)
Turandot (Foto Musacchio e Ianniello)
Recensione
classica
Roma, Sala Santa Cecilia del Parco della Musica,
Turandot
12 Marzo 2022

Conclusasi mercoledì scorso la registrazione della Turandot  per una major discografica, l’Accademia di Santa Cecilia ha eseguito sabato l’ultima opera di Puccini anche davanti al pubblico, con lo stesso cast dell’incisione tranne un piccolo cambiamento in un ruolo minore.

Già i primi minuti hanno fatto capire quale sarebbe stato il marchio di quest’esecuzione, cioè lo splendore orchestrale. Con un direttore come Antonio Pappano, con una tale orchestra (e un tale coro) e con un lungo periodo di prove non poteva essere altrimenti. Già l’attacco è abbagliante, spettacolare, impressionante: sonorità così violente e metalliche e allo stesso tempo scattanti e agili non le avevamo mai sentite. Non si fa in tempo a stancarsi di tale violenza barbarica che arriva la sospensione incantata dell’invocazione alla luna e poi il minaccioso serpeggiare dei bassi al momento dell’apparizione silenziosa di Turandot. Emerge come non mai la modernità della scrittura - orchestrazione, armonie, ritmi - dell’ultimo Puccini. E viene naturale chiedersi a chi il compositore italiano possa aver guardato: forse a Stravinskij o a Strauss o a Ravel o al giovane Prokof’ev dell’Amore delle tre melarance ? No, è qualcosa che non si trova in nessun altro compositore di quegli anni, è interamente farina del sacco di Puccini.

Proseguendo, non si può passare sotto silenzio il finale del primo atto, la cui violenza incute veramente sgomento e terrore, come se gravassero direttamente anche su noi la crudeltà e il pericolo che sovrastano il Principe ignoto. All’estremo opposto stanno i momenti di leggerezza quasi impressionistica, come i colori che dipingono la notte silenziosa di Pechino all’inizio del terzo atto. Direttore e orchestra - aiutati anche dal posizionamento sul palco e non nella buca - mettono in luce un’infinità di dettagli che spesso passano inosservati: ora un passaggio dei contrabbassi, ora due leggeri e nitidi rintocchi di campanelli, ora qualche nota dell’arpa (l’ottima Cinzia Maurizio, che dopo tanti anni era al suo ultimo concerto in orchestra e alla fine è stata affettuosamente salutata da Pappano e applaudita dal pubblico). E quanta delicata poesia nel solo del violino di Andrea Obiso, quando accompagna le parole di Liù: “Tanto amore segreto…”. Sono tanti i dettagli che restano impressi nella memoria, ma questo non deve far pensare che la Turandot di Pappano sia stata un’antologia di bei momenti, al contrario uno dei grandi pregi di quest’esecuzione era la tensione ininterrotta.

Se vi siete fatti l’idea che il direttore, l’orchestra e il coro (perfettamente preparato da Piero Monti) siano stati i protagonisti di questa Turandot,  non siete lontani dal vero. Ma c’erano anche fior di cantanti. Sensazionale il debutto dell’americana Sondra Radvanosvky nel ruolo del titolo: la sua voce sovrasta l’orchestra senza denunciare il minimo sforzo ed è luminosa, ricca di colori e di vibrazioni. Anche quando creava un personaggio così diverso dalle altre sue eroine, Puccini pensava sicuramente a una voce “italiana” - cioè a una voce come quella della Radvanosvky, che è Norma e Leonora, Aida e Tosca - e non a una Brünnhilde dalla voce d’inflessibile acciaio.

Anche Jonas Kaufmann era al suo debutto in quest’opera e, sebbene Calaf non gli dia molte occasioni per giocare le sue carte migliori, che sono l’intelligenza dell’interprete e la duttilità della voce, ha offerto comunque un’ottima prova. Nonostante abbia ormai girato la boa dei cinquant’anni, conserva sia il suo bel timbro dai riflessi bruniti sia gli acuti sicuri (il do è saldo, seppure non molto squillante ed eroico) né gli manca il volume per farsi sentire (tranne che in un paio di momenti) al di sopra del fortissimo del coro e dell’orchestra. Ma soprattutto abbiamo ascoltato un tenore che ha capito che Calaf non si risolve totalmente nel triplice “Vincerò”!

Ermonela Jaho dà a Liù un soave lirismo a base di acuti purissimi e bellissimi filati (ma questo personaggio avrebbe anche momenti più intensi e drammatici) e Michele Pertusi è un Timur nobile e dolente. Il veterano Gregory Bonfatti conosce perfettamente ogni minima piega del ruolo di Pang, Siyabonga Maqungo è un buon Pong e Mattia Olivieri è un Ping da antologia: mancavano però quel totale affiatamento e quella complicità così importanti per far funzionare alla perfezione i delicati ingranaggi dei loro terzetti. Bene Leonardo Cortellazzi (Altoum) e Michael Mofidian (Mandarino).

Gli applausi sono scoppiati ogni volta che Pappano è entrato in sala e anche alla fine di alcuni singoli pezzi (e questo è totalmente inconsueto e anche un po’ fuori luogo in un’esecuzione in forma di concerto) ma è alla fine che sono stati veramente un uragano forza 10, e anche di più per Pappano e Radvanosvky. Insomma un trionfo, in una sala finalmente totalmente esaurita com’è purtroppo diventato raro in questi tempi.

 P.S. È stata eseguita la versione originale del finale, quella realizzata nel 1925 da Franco Alfano sugli appunti di Puccini, che Toscanini rifiutò e fece accorciare. Non solo dura cinque minuti di più ma in alcuni punti è molto diversa da quella che si ascolta solitamente. Personalmente la questione non mi appassiona troppo, perché entrambe le versioni non sono all’altezza delle parti scritte da Puccini e appaiono delle appendici totalmente incongrue. E non si può farne di Alfano il capro espiatorio. Bisogna rassegnarsi al fatto che Puccini sia morto prima di poter finire la Turandot e fermarci dove si è fermato lui. 

 

 

  

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