Una prima esecuzione a Roma... Il ritorno d’Ulisse in patria

Bella edizione della “tragedia di lieto fine” di Monteverdi a cura del Reate Festival

Il ritorno d’Ulisse in patria (foto Alex Giagnoli)
Il ritorno d’Ulisse in patria (foto Alex Giagnoli)
Recensione
classica
Teatro di Villa Torlonia, Roma 
Il ritorno d’Ulisse in patria
05 Ottobre 2018 - 10 Ottobre 2018

Il Reate Festival quest’anno ha portato il suo spettacolo inaugurale a Roma, con tre recite al Teatro Torlonia del Ritorno di Ulisse in patria di Monteverdi, che sarà replicato al Teatro Flavio Vespasiano di Rieti il 10 ottobre. Una scelta felice, perché si tratta di una prima esecuzione (!) a Roma e perché si sono trovate le condizioni ideali per un’opera del Seicento nelle dimensioni ridotte e nell’acustica raccolta di questo teatrino, costruito in pieno Ottocento ma con uno sguardo a quello gonzaghesco di Sabbioneta. Si stava quasi a ridosso degli interpreti, che è un vantaggio per chi ascolta ma anche un impegno per chi canta e suona, poiché anche la minima sbavatura non sfugge e quindi tutto deve essere perfettamente controllato. La preparazione con il direttore Alessandro Quarta deve essere stata molto accurata, giacché non si sono sentite sbavature, la declamazione del testo era ottima (inutile dire quanto questo sia fondamentale in uno stile vocale che affonda le sue radici nel recitar cantando) e i personaggi erano perfettamente colti nelle loro specificità stilistiche e drammatiche. E non è affatto semplice cantare questi personaggi, nonostante non ci siano apparentemente grandi difficoltà vocali, in quanto l’estensione è piuttosto limitata, i passaggi vocalizzati sono pochi e ancora relativamente facili. Ma basta la scena d’entrata di Penelope per rendersi conto di quanto impegno richieda dar vita a una figura così complessa: in questo lamento il personaggio deve mantenere la sua regalità ma allo stesso tempo esprimere il dolore, l’amore per Ulisse ma anche una sorta di risentimento per la sua lontananza, l’alternanza di speranza e disperazione. Lucia Napoli sa dosare nel modo giusto questi aspetti, sia con la voce che con la recitazione, aiutata dalla figura nobile e malinconica e dalla voce ombrosa di mezzosoprano invece che di soprano. Infatti le tipologie vocali di Monteverdi sono spesso ambigue, se giudicate con i criteri attuali, e consentono l’attribuzione di un ruolo a voci diverse, come anche nel caso di Ulisse, che da un’edizione all’altra oscilla tra tenore e baritono. Questa volta era Mauro Borgioni, che ne ha offerto un’interpretazione che si potrebbe definire a tutto tondo, mettendo in rilievo con la sua corposa voce baritonale il carattere energico e sanguigno del soldato più che la sottigliezza, prudenza e l’astuzia che sono tradizionalmente gli attributi del protagonista dell’Odissea.

Ma i personaggi sono ventidue (i cantanti un po’ di meno, poiché alcuni di loro ricoprono più ruoli) ed ognuno è essenziale, poiché non esistono ruoli secondari ma tutti sono protagonisti, magari solo per pochi minuti, quindi è fondamentale che tutti siano assolutamente all’altezza. Questo risultato è stato perfettamente raggiunto. Bisogna ancora una volta darne almeno una parte del merito ad Alessandro Quarta, tanto più perché i cantanti erano in maggioranza giovanissimi ed ancora non molto esperti di questo repertorio. Hanno iniziato la rappresentazione nel modo migliore i quattro del Prologo, ovvero Enrico TorrePiero FacciVittoria Giacobazzi Sabrina Cortese, ognuno dei quali ritornava poi in scena per interpretare altri personaggi: in particolare la Cortese si è distinta nell’unico ruolo dell’opera che comincia ad esigere un certo virtuosismo, Minerva, che in quanto dea si esprime in un linguaggio più etereo, diverso dal recitar cantando degli umani. Non è un astratto essere sovrumano ma un’umanissima ragazza, dotata di un corpo e delle connesse pulsioni, la giovane Melanto, che Michela Guarnera ha incarnato con la voce e il corpo in maniera prorompente, sensuale e allo stesso tempo ironica, cui ben rispondeva il suo amato Eurimaco, Antonio Sapio.

Andrés Montilla-Acurero era il pastore Eumete, trasformato dalla regia in un sacerdote in clergyman, evidenziando in tal modo certo suo fare moraleggiante, che conviene più a un pastore d’anime che ad un pastore di greggi. Per ragioni di spazio si è costretti a citare rapidamente gli altri con un generico “bravi tutti”: erano Roberto Manuel ZangariLuca CervoniTonia Lucariello Gianluca Bocchino. Ma qualcosa di più va assolutamente detto di Alessio Tosi: Iro fa solo una breve comparsa ma egli ne ha fatto un cameo irresistibile, un misto di comicità e umanità, di sbruffoneria e viltà. Puntualissima la resa strumentale del Reate Festival Baroque Ensemble, formato interamente da giovani.

La regia di Cesare Scarton non sbagliava un colpo. Dando piena fiducia a testo e musica, ne metteva in evidenza tutte le implicazioni, quelle più evidenti e quelle più segrete. Tutto era basato sull’accorta gestione della recitazione, delle posture e dei ritmi, nella cornice essenziale e quasi neutra delle scene grigie e pietrose di Michele Della Cioppa: un letto che si trasformava in tavolo e tre spezzoni di pareti che si muovevano ingegnosamente per formare i vari ambienti. Per dare concretezza ai personaggi umani Scarton ha chiesto ad Anna Biagiotti costumi di foggia moderna, mentre erano ottocenteschi quelli degli dei, a rimarcare la distanza tra i due ambiti, che si sfiorano ma restano sempre separati, come se gli dei appartenessero ad un vecchio mondo ormai superato. In alcuni momenti la regia si prendeva la libertà di suggerire una propria interpretazione, che non era mai arbitraria ma sottolineava alcuni spunti già presenti nell’opera: si è detto di Eumete trasformato in sacerdote, si può aggiungere che nel finale, mentre al proscenio Penelope e Ulisse cantano l’amore coniugale, sullo sfondo Telemaco si dedica ad un rapporto amoroso meno idealizzato: Amore è sì vincitore, ma non è l’amore platonico ma l’amore sensuale, figlio di Venere, come viene presentato nel prologo del Ritorno d’Ulisse in patria e in quello dell’Incoronazione di Poppea.

Resterebbe la questione dei tagli, ma è troppo complessa per essere discussa ora. Lo spettacolo è durato tre ore e il pubblico attuale accetta con fatica spettacoli più lunghi, quindi – si è detto - tagliare è inevitabile. Ma ne siamo sicuri? E allora il Parsifal? E il Guglielmo Tell? Non si può negare che i tagli alterano il bilanciamento delle situazioni drammatiche, l’alternanza dei vari registri stilistici, il ritmo teatrale. Ma d’altronde anche all’epoca di Monteverdi un’opera veniva pesantemente manomessa ad ogni ripresa… La soluzione è difficile e va trovata caso per caso.

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