Tribù contemporanee

Incontri al Festival del Mondo Arabo di Montréal

Recensione
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Benvenuti a Montréal, metropoli multiculturale e città dei festival; isola felice dove la vitalità e la pluralità delle culture che vi abitano contribuiscono ad arricchire gli incontri e gli scambi tra popoli migranti. Qui la musica diventa spesso il veicolo privilegiato del dialogo, un terreno dove l’incontro genera nuovi linguaggi e modifica gli assetti identitari. Identità fluide, quindi, in costante negoziazione anche al chiuso delle belle sale da concerto, distribuite nel quartiere dei teatri, tra il vieux port et il plateau, sulla linea verde della metropolitana.

Nel panorama variegato dei festival che, insieme a innumerevoli altre attrazioni fanno di Montreal la capitale culturale del Québec, il Festival du monde arabe, più noto come FMA, è probabilmente il format che meglio rappresenta l’impronta interculturale di questa singolare metropoli nordamericana. Un appuntamento autunnale “per favorire i legami tra le comunità e per dare voce alle forme di diversità e di convivenza pacifica della città”, come preconizzato dalla direzione artistica.

Circa sei anni di permanenza non continuata sul suolo montréalese, ma solo quest’anno decido di andare a curiosare nel tempio della world music locale, complici peraltro le ricerche di “etnomusicologia urbana” di alcuni studenti che lavorano sul festival in questione. Poche altre informazioni, se non i loro resoconti etnografici delle edizioni precedenti, e già mi incuriosiscono i criteri di programmazione di un festival che mi attendo rivelarsi, indiscutibilmente, un festival del “mondo arabo”.

Tuttavia, come scopro immediatamente al concerto di apertura della quattordicesima edizione (dal 25 ottobre al 9 novembre), il titolo, di fatto, può trarre in inganno. Come spiegarsi altrimenti un’apertura affidata a un gruppo franco-tedesco che suona musica dell’est rubacchiata a quelle bande a cui Emir Kusturica o Goran Bregovic hanno abituato noi europei? La presenza del quintetto di Friburgo Äl Jawala al FMA si giustifica, in effetti, in nome di una serie di appropriazioni compiute dalle musiche balcaniche rispetto ai repertori e alle sonorità turche, arabe, ebree o persiane. Se il concetto si tiene, l’operazione musicale che il gruppo propone convince molto meno, almeno la sottoscritta. In un teatro gremito, il National, un pubblico entusiasta, divertito e scatenato, si lascia agitare dal balkan beat degli Äl Jawala e questo, senza dubbio, ci intriga, ma in qualche modo ci turba. Un po’ rock, un po’ hip hop, ma anche reggae e jazz, quello che viene fuori dai cinque strumenti in scena: è tutto, ma soprattutto niente, e tanto meno balkan, ma la platea multiculturale, araba tanto quanto canadese, è in delirio e ne prendiamo atto.

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Non ci vorranno molti concerti per capire che le mie percezioni estetiche differiscono rispetto a quelle degli habitués, in ragione di attese musicali e istanze socioculturali che, evidentemente, divergono.
Il concerto di Constantinople, molto più composto, nell’elegante salle Bourgie ci chiarisce ulteriormente la natura del festival. Constantinople è un progetto musicale aperto alle musiche arabe. Di anno in anno, l’ensemble costituito da alcuni elementi stabili con sede a Montréal (in particolare, Kiya Tabassian, il leader di origini iraniane) invita eminenti musicisti del bacino del mediterraneo per proporre un repertorio classico e al tempo stesso aperto a composizioni contemporanee. Ho condiviso il concerto con l’etnomusicologo che può essere considerato tra i massimi conoscitori delle musiche dell’Asia centrale e dell’Iran (molti avranno già capito di chi sto parlando…), di passaggio in quei giorni a Montreal. Non era esattamente il concerto che si aspettava di ascoltare, e nemmeno io. Le scelte di repertorio, così come quelle stilistiche, lasciavano trasparire, pur nella qualità dell’esecuzione, che quella musica racconta prima di tutto la storia dei musicisti che la suonano. Ci sono, infatti, vissuti di migrazione, modalità di riscoprire la propria cultura d’origine, che possono essere percepiti semplicemente tendendo l’orecchio a una ornamentazione vocale di troppo, a un timbro “troppo chitarristico” di setar. Il concerto di Constantinople è evidentemente prima di tutto un incontro tra musicisti arabi cresciuti a contatto diretto con i grandi maestri locali e musicisti arabo-canadesi che, senza rinnegare la propria formazione nordamericana, cercano una vicinanza con la musica del Paese che un giorno hanno dovuto abbandonare e al quale sentono ancora, in qualche modo, di appartenere.

Ed ecco che poco a poco, concerto dopo concerto, al di là delle attese e delle pretese estetiche, il senso profondo di questo festival si svela in tutta la sua valenza culturale: presentare progetti musicali ancorati all’attualità locale che fanno appello tanto alle tradizioni musicali quanto ai vissuti (migranti) dei musicisti.

Uno spirito analogo al concerto di Constantinople si ritrova, infatti, nel progetto Oudistique, un ensemble di maestri di oud montréalesi, ma di origini diverse (Grecia, Turchia, Iran, Medio-oriente, Maghreb e Quebec), riuniti per l’occasione al fine di rendere omaggio allo strumento principe della cultura araba, verso il quale, come sappiamo, la stessa musica occidentale è profondamente debitrice. L’evoluzione dell’oud supera oggi di gran lunga i suoi contesti originari, rispondendo perfettamente a uno degli obiettivi principali del FMA, che è quello di sostenere e realizzare iniziative artistiche che si fondino ancora una volta sulle diversità culturali presenti a Montréal.

Lo spettacolo più riuscito tanto nelle intenzioni artistiche che in quelle socioculturali è certamente Tribales. Creazione originale della quattordicesima edizione del FMA per celebrarne la tematica della “tribalità”, lo spettacolo si nutre delle tradizioni beduine, arabe, berbere e nubiane del deserto. Ma è al tempo stesso l’occasione per rivisitare il concetto classico di "tribù", alla luce delle realtà urbane contemporanee, in cui nuove forme di tribalismo si mettono in atto per salvaguardare e mantenere salde solidarietà religiose, spirituali, rituali, ma anche politiche e culturali. Su quel palco, in una delle sale principali della Place des Arts, assisto finalmente allo spettacolo che dalla prima serata mi sarei aspettata di vedere. Deformazione di un orecchio occidentale costantemente in cerca di una presunta autenticità? Poco c’era di “autentico” in quelle coreografie contemporanee create per l’occasione da Kim Girouard per descrivere ora un canto di lode, ora uno meharista, o ossessivi ritmi rituali. Eppure era come un incantesimo, l’incantesimo che si sprigiona dalla maestria di certe voci, da quella dei suonatori di oud e di percussioni che il deserto lo abitano e lo respirano.

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La linea della sperimentazione e della creazione originale è probabilmente la più efficace e interessante che il Festival del mondo arabo mette in scena di anno in anno. Riesce a spiegare e a sintetizzare, in termini artistici e musicali, un concetto complesso come quello di “incontro”, costantemente inafferrabile se lo si affidasse alle sole parole.

Le foto sono di Attilio Turrisi

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