Traffic contro la crisi

Il festival torinese inaugura il palco della Venaria con un Nick Cave violento e lirico

foto j.t.
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Recensione
pop
Traffic Free Festival Venaria
09 Luglio 2009
Esiliato alle spalle della magnifica Reggia di Venaria il nuovo “Traffic lontano dal traffico” (si fa per dire: viabilità caotica e navette rare) parte alla grande nella serata dedicata a Nick Cave. La crisi – che non può non incidere su una rassegna per cui la gratuità è sempre stata un punto ideologico – si è trasformata in una ottima vetrina per il live “low cost” torinese, reclutato per aprire tutte e tre le serate. Così Paolo Spaccamonti (il migliore), Vittorio Cane e Deian e Lorsoglabro non hanno fatto rimpiangere opening act ben più accreditati. Così come ampio merito va all’altro evento di spalla: St. Vincent, alias di Annie Clark, cantante e polistrumentista con base a Brooklyn. Ex Polyphonic Spree, musicista per Sufjan Stevens (e si sente), la Clark alterna momenti cameristici con trio di fiati (grazie a una band decisamente “multitasking”) a svisate hard. Un delizioso pastiche di stili e suoni, coronato – ciliegina – da una cover hendryxiana con sola chitarra elettrica di “Dig a Pony” dei Beatles. Nick Cave, poi, si prende le sue due ore abbondanti di violenza e poesia: lo ritroviamo un anno dopo il suo ultimo passaggio in Italia (a Milano), e l’unica apparente differenza sembra essere il taglio dei baffi e l’addio di Mick Harvey. La linea dei “nuovi” Bad Seeds post-Grinderman ha abbandonato definitivamente le atmosfere acustiche degli album primi anni Zero per una rinnovata vena sporca: sestetto con due batterie e Warren Ellis libero rumorista. L’affiatamento e il mestiere mantengono il concerto sulla sottile linea tra il puro lirismo e il noise, e pezzi come “The Mercy Seat”, “Tupelo”, “Red Right Hand”, “The Ship Song” e la murder ballad “Stagger Lee” ne escono rinvigorite, e sempre emozionanti. Raro che il concerto di un rocker ormai over 50 non cada nella malinconia per ciò che fu: il Cave autore non sarà quello di un tempo. Il Cave performer, che urla, sputa, tira i microfoni e si commuove cantando “The Good Son” è ancora credibile, e magnifico. Anche senza baffi.

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