Stabat Mater 2.0
Il Teatro dell’Opera ha rappresentato in una basilica romana uno spettacolo di Romeo Castellucci su musica di Pergolesi e Scelsi
02 novembre 2025 • 6 minuti di lettura
Roma, Basilica di Santa Maria in Aracoeli
Stabat Mater
28/10/2025 - 31/10/2025Monumentale: occupa tutta la lunga navata di Santa Maria in Aracoeli, spingendosi fino ai piedi dell’altar maggiore. Ma anche e soprattutto ascetico: il ricco patrimonio artistico della basilica - i mosaici, i marmi e i pergami duecenteschi, gli affreschi di Benozzo Gozzoli e Pinturicchio, il profluvio di pitture, sculture e lapidi barocche - è lasciato nell’oscurità e soltanto le severe colonne antiche di reimpiego emergono dalla penombra a scandire lo spazio in cui si svolge questo Stabat Mater, che prosegue e completa la Passione secondo Matteo che lo stesso Romeo Castellucci ha portato in scena quasi dieci anni https://www.giornaledellamusica.it/recensioni/la-chimica-di-bach. Quella Passione era in programma anche a Roma nel 2022 ma fu prima rinviata e poi annullata. Ora questo sublime Stabat Mater rende ancora più pungente il rimpianto per non aver potuto vedere la Passione (ma si potrà recuperarla il prossimo dicembre a Firenze).
Questo è lo Stabat Mater non di Giovanni Battista Pergolesi ma di Castellucci: il protagonista è lui. Ma ne sono protagonisti alla pari - perché senza di loro non potrebbe essere stato realizzato - anche il direttore Michele Mariotti, il soprano Emöke Barath, il mezzosoprano Sara Mingardo, il Coro di voci bianche e l’Orchestra del Teatro dell’Opera di Roma e i tanti figuranti. Alcuni hanno un ruolo di primo piano e altri no, ma tutti sono fondamentali all’esito dello spettacolo e tutti vi contribuiscono con intensità, concentrazione e precisione, che siano cantanti di lunga esperienza o bambini di pochi anni. Ideare prima, calcolare poi e infine ottenere esattamente tutti i singoli movimenti richiesti a tutti coloro che compaiono su questa particolarissima scena, per l’intera durata dello spettacolo o per pochi minuti o pochi secondi, che siano artisti consumati o bambini di pochi anni, non deve essere stato facile. Abbiamo detto che è uno spettacolo monumentale e allo stesso tempo ascetico e aggiungiamo che è sobrio e minimalista ma allo stesso tempo estremamente complesso.
Castellucci non illustra quanto narrato dal testo del tredicesimo secolo attribuito a Jacopone da Todi, messo in musica da innumerevoli compositori, tra cui Pergolesi nel 1736. Ci sono infatti soltanto pochi accenni al supplizio di Gesù: compaiono brevemente due assi di legno, che alludono alla croce, ma la croce non si vede mai. Compare anche il corpo piagato di un uomo esanime, come è rappresentato Gesù in tante deposizioni dal medioevo al barocco: non è però un solo corpo, ma tanti corpi martirizzati, e questo significa che questo Stabat Mater non è un lamento per uno solo ma per tutte le vittime della violenza, della guerra e dei tanti mali che affliggono l’umanità o che piuttosto l’umanità infligge a se stessa.
Similmente non c’è un’unica donna ma due, il soprano e il contralto a cui Pergolesi ha affidato i tredici “numeri” del suo Stabat Mater: non incarnano Maria, la madre di Gesù, che assiste “gementem, contristatam et dolentem” al supplizio del figlio, ma due donne che assumono su di loro ed esprimono la sofferenza delle innumerevoli madri che hanno visto trucidare i loro figli e simboleggiano il dolore dell’intera umanità. Sono annichilite dal dolore, coperte da capo a piedi da vesti scure, e manifestano con i loro gesti - oltre che con il loro canto - una sofferenza atroce, indicibile. Ma alla fine si tolgono quegli abiti neri, sotto cui compare una semplice tunica bianca, probabilmente a significare il superamento del momento più straziante del dolore, e alla fine si tolgono anche la tunica e restano con un abito rosso, il cui significato è più difficile da interpretare, ma potrebbe indicare che il sangue del figlio è indelebilmente impresso sul loro corpo.
Castellucci fa precedere e seguire lo Stabat Mater di Pergolesi da un prologo ed un epilogo, basati su due composizioni di Giacinto Scelsi, i Quattro pezzi (ciascuno su una nota sola) per orchestra da camera del 1959 e Three latin prayers per coro a cappella del 1970: un abbinamento a Pergolesi audace e perfettamente riuscito. Ma i primi minuti dello spettacolo si svolgono nel silenzio. Entrano dei soldati con elmetto e tuta mimetica: sono i professori dell’orchestra dell’Opera, che stringono tra le mani i loro strumenti come se fossero dei fucili mitragliatori, percorrono la lunga pedana, si dispongono davanti all’altare e suonano i quattro brani orchestrali di Scelsi, diretti da Michele Mariotti, anche lui in mimetica ed elmetto. Il primo brano è fatto di suoni fissi, ululanti come lontane sirene d’allarme, su cui si sovrappongono suoni più brevi e graffianti. Tre pali metallici lunghi fino al soffitto della chiesa e illuminati da luce fluorescente esplorano il cielo, come fari dell’antiaerea che cercano d’individuare gli aerei nemici. Anche se non si è mai vissuta direttamente una tale esperienza, ci si sente come in una città sotto bombardamento e si provano sensazioni agghiaccianti, nonostante si stia comodamente seduti al sicuro in una chiesa a migliaia di chilometri da quei fatti.
Alla fine, le tre preghiere dell’epilogo in stile neogregoriano, cantate dal Coro di voci bianche del Teatro dell’Opera preparato dal suo Maestro Alberto De Sanctis e collocato con effetto fascinosissimo fuori scena e nel buio, invitavano ad una sperata ed utopica pace.
È difficile descrivere adeguatamente questo spettacolo. Ed è assolutamente impossibile trasmetterne la capacità di coinvolgere e toccare nel profondo coloro che vi assistono e che non restano semplici spettatori ma partecipano a quel dolore universale. Come si è detto, il merito non è del solo Castellucci ma anche dell’esecuzione musicale. Emöke Barath e Sara Mingardo hanno cantato splendidamente, con coscienza dello stile - quindi senza barocchismi di maniera - e con intensa forza espressiva, che sembrava venire dall’interno senza la minima sottolineatura esteriore, conferendo alla musica di Pergolesi profonda e intensa tragicità, grazie anche alla bellezza dei loro timbri e alla perfezione della loro tecnica. Il gruppo di strumenti ad arco del Teatro dell’Opera, collocato in modo che fossero invisibile agli spettatori, era perfettamente fuso con le voci, grazie alla direzione attentissima di Michele Mariotti.
Il pubblico ha seguito in concentratissimo silenzio e alla fine quasi non osava applaudire, aderendo così allo spirito di questo spettacolo che non era certamente uno spettacolo normale, con i protagonisti appena morti in palcoscenico che escono al proscenio sorridenti a raccogliere gli applausi. No, qui gli interpreti non non si sono affatto presentati per il consueto rituale degli applausi e dei ringraziamenti.
Un unico appunto: quattro recite erano poche, considerando che i posti disponibili erano poche centinaia ogni sera, andati rapidamente esauriti, cosicché fuori dalla chiesa si creavano lunghe file di persone speranzose che all’ultimo minuto si liberasse qualche posto.
PS Va sottolineato il periodo di straordinario fervore attraversato dall’Opera di Roma in quest’ultimo mese o poco più: tre opere di tre grandi del Novecento (Britten, Janacek, Poulenc), un’opera contemporanea (Adriana Mater), un’opera sconosciuta del Settecento (Piramo e Tisbe), un virtuosistico balletto dell’Ottocento (Marco Spada), un concerto (con il debutto di Marco Ceretta a Roma), questo Stabat Mater e una ripresa di Tosca con le scene della prima assoluta del 1900 trasmessa in mondovisione: avrebbe dovuto dirigerla Daniel Oren, che è stato costretto a rinunciare per seri motivi di salute ed è stato sostituito all’ultimo minuto da Antonino Fogliani. E ora una pausa fino al 27 novembre, quando Lohengrin inaugurerà ufficialmente la nuova stagione, come se quello che si è visto e ascoltato finora non contasse affatto.