Oberon versione Gardiner

La rara versione originale inglese di Oberon, ultima opera di Weber e capolavoro del romanticismo musicale tedesco, realizzata in versione semiscenica allo Chatelet di Parigi da Sir John Eliot Gardiner in veste di direttore e regista. Non convince l'idea di affidare i dialoghi parlati a un recitante che narra e commenta l'azione con interpolazioni ad essa estranee, più da bravo presentatore che da catalizzatore di una drammaturgia peraltro divagante e onirica, così come appaiono defilate le scelte musicali di Gardiner, con un suono piuttosto rozzo dell'orchestra, e apprezzabili soprattutto per omogeneità le prestazioni dei cantanti. L'importante riproposta non perde tuttavia il suo incanto e fa breccia nell'attenzione del pubblico.

Recensione
classica
Théâtre du Châtelet Parigi
Carl Maria von Weber
08 Marzo 2002
Oberon, finalmente. Valeva bene una puntata a Parigi la rara occasione di poterlo ascoltare, per la prestigiosa stagione dello Chatelet, nella lingua originale inglese in cui Weber lo compose e presentò al Covent Garden di Londra nel 1826, poche settimane prima di lasciare la terra dei vivi. Un'opera, Oberon, vaporosa e delicata, piena, più di ogni altra del suo autore, di gemme purissime e screziate, quasi ragione a se stesse, e dunque prive, in una visione fiabesca e incantata, di un filo drammatico consistente e funzionale. Con i suoi dialoghi parlati intercalati alla musica, anche Oberon si inserisce nella tradizione del Singspiel e ammicca fraternamente al modello del Flauto magico di Mozart (con il motivo del corno a far da segnale di una nuova temperie musicale e sentimentale), ma è un Singspiel per così dire postumo, attraversato da fremiti romantici e da spiriti notturni che lo consegnano interamente alla dimensione féerique del sogno, della tenerezza e dell'estasi: non tanto prova di un'iniziazione a più sublimi sfere dell'umano e del divino, quanto incarnazione di una leggerezza che trova nella musica il regno dell'ineffabile e dell'incredibile, abbandonandosi a piene mani al piacere raffinato dell'invenzione e dell'ironia. Un capolavoro che tante strade virtualmente ha aperto e che sembra tuttavia perfettamente compiuto nel proprio ambito irripetibile, nel proprio superiore equilibrio. Sulla carta l'esecuzione di Parigi aveva tutti i requisiti per riuscire esemplare nella scelta proposta, lingua, direttore e compagnia. Ma evidentemente un elfo scappato impunemente dalla musica di Weber, che ne è piena, ci ha messo lo zampino, suggerendo al realizzatore capo qualche idea balzana. Il direttore Sir John Eliot Gardiner, infatti, si è voluto improvvisare anche regista di una "mise en espace" altrimenti detta semiscenica nella quale costumi da filodrammatica e arredi da magazzino teatrale anziché alludere mortificavano lo spazio ideale dell'immaginazione. Operazioni del genere non sopportano il dilettantismo, né possono risolversi in rappresentazioni da college. Inoltre Gardiner ha rielaborato il testo affidando il riassunto dei dialoghi recitati a un attore (Roger Allam) inteso come una specie di presentatore o intrattenitore televisivo che oltre a spiegare l'azione la commentava con battute di umorismo tipicamente inglese: il che, invece che straniamento, provocava una sorta di progressivo allontanamento dalle atmosfere magiche di cui l'opera, e la sua musica, è permeata. Con il risultato di raffreddare quel calore e quella immediatezza che di essa sono presupposti imprescindibili. Veniva il sospetto che Gardiner avesse sbagliato tiro o bersaglio: il che appariva piuttosto strano in un musicista della sua esperienza e sensibilità. Ma anche sul piano strettamente musicale le cose non andavano decisamente meglio. All'Orchestre Révolutionnaire et Romantique di Gardiner (ma non al Monteverdi Choir, invece eccellente) mancano duttilità e grazia per affrontare spartiacque così complessi come quelli nei quali si muove Oberon; e resterà sempre un pio mistero come si possa entusiasmarsi di fronte a un suono di strumenti originali cosiddetti filologici così legnoso, asfittico e dalla intonazione precaria come quello offerto in questa occasione dai musicisti inglesi: intenzionale, senza dubbio, e accuratamente spalmato durante tutta l'esecuzione, a partire dalla fiammante Ouverture. Del resto, poca cura nei dettagli era una costante anche della concertazione di Gardiner, curiosamente sbrigativa e poco ispirata, anche nei momenti più poetici. Pregio maggiore della compagnia di canto era l'omogeneità, senza punte svettanti: buoni i due tenori Steve Davislim (Oberon) e Charles Workman (Huon of Bordeaux), più a suo agio nelle parti liriche che in quelle di coloratura il soprano Hillevi Martinpelto (Rezia, anzi Reiza nella versione inglese), gustosa la nostra Marina Comparato nel ruolo di Fatima (eccettuate le improbabili mossette di danza pseudo esotica che ne accompagnano la recitazione). Accettabili gli altri. Ma nel complesso la resa vocale non ha reso giustizia alle impennate di un belcantismo a tratti sfrenato (non si può chiamarlo altrimenti) che incendiano la partitura. Teatro esaurito e successo assai cordiale. Il che suggerisce due osservazioni. La prima è che per molti doveva trattarsi di un primo ascolto nel quale si prendeva per buono tutto quello che veniva dato (e comunque i tesori dell'opera, anche se appannati, sono tali da farsi giustizia da soli). La seconda è che la civiltà del pubblico parigino un pubblico eterogeneo, straordinariamente disponibile e coinvolto dalla passione, autenticamente internazionale è un esempio dal quale abbiamo molto da imparare, con una punta, questa sì, di invidia.

Interpreti: Roger Allam, Steve Davislim, Hillevi Martinpelto, Charles Workman, William Dazeley, Marina Comparato

Regia: Sir John Eliot Gardiner

Orchestra: Orchestre Révolutionnaire et Romantique

Direttore: Sir John Eliot Gardiner

Coro: Monteverdi Choir

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