A “Musica per Roma” un concerto per il centenario di Ligeti

L’ensemble Intercontemporain diretto da Pierre Bleuse ha eseguito quattro concerti del compositore ungherese

Ensemble Intercontemporain
Ensemble Intercontemporain
Recensione
classica
Roma – Parco della Musica, Sala Sinopoli
György Ligeti
15 Gennaio 2023

Il centenario della nascita di György Ligeti è stato ricordato da “Musica per Roma” con un concerto di un gruppo che ha fatto la storia della musica contemporanea, l’Ensemble Intercontemporain, fondato nel 1976 a Parigi da Pierre Boulez, che ne fece una roccaforte dell’avanguardia musicale della seconda metà del secolo scorso. Nel 2013 la direzione è passata a Matthias Pintscher, che ha allargato il campo d’azione dell’ensemble ai classici del Novecento e ai giovani compositori ormai svincolatisi dai dogmi dell’avanguardia. Nell’autunno di quest’anno la direzione musicale passerà a Pierre Bleuse, che era sul podio per questo concerto romano. Anche questa volta l’ensemble ha confermato la sua eccellenza nel campo della musica moderna e contemporanea. Lo formano una trentina di musicisti provenienti da mezzo mondo (ci sono anche due italiani), alcuni dei quali hanno anche svolto perfettamente il difficile ruoli di solisti nei quattro Concerti di Ligeti in programma.

Il concerto è stato un genere musicale preferito da Ligeti, fin dal Concerto românesc  scritto nel 1951 e rifiutato in Ungheria perché considerato troppo modernista, nonostante fosse basato sulla musica popolare. Nel 1956 Ligeti si rifugiò a Vienna e venne a contatto con l’avanguardia musicale europea, dalla quale ricavò molti stimoli, mantenendo però la propria originalità e indipendenza, senza lasciarsi imbrigliare dai dogmi allora imperanti, che evidentemente non erano così assoluti come oggi si favoleggia. Le sue composizioni più note e rappresentative sono quelle degli anni Sessanta – tra cui Atmosphères,  Requiem,  Lux aeterna e  Lontano, che Stanley Kubrick usò nella colonna sonora di 2001. Odissea nello spazio  e Shining  - basate su una densa micropolifonia che forma come una nube sonora in perpetuo movimento, percorsa a tratti da forti tensioni e bagliori apocalittici.

Da quanto si è ascoltato l’altra sera, si direbbe che i Concerti fossero per Ligeti un territorio dove muoversi con grande libertà, tenendo in considerazioni le caratteristiche dello strumento solista e non dimenticando che il genere del concerto implicava tradizionalmente un certo grado di piacevolezza dell’ascolto. Nel Concerto per pianoforte e orchestra  del 1966 fa ampio uso di poliritmia, contrappunto ritmico, microtoni, sovrapposizione di scale diverse, il cui solo nome potrebbe generare un certo allarme in qualche ascoltatore, mentre in realtà l’attacco del pianoforte con un ritmo jazzistico è brillante e godibilissimo, così come lo è subito dopo il suo vario e originale dialogo con le percussioni (in successione tamtam, glockenspiel, tamburello basco, grancassa, tamburo piccolo, castagnette) che fa pensare a sonorità caraibiche. Intanto gli altri strumenti della piccola orchestra intervengono, singolarmente o insieme, con sonorità così originali e particolari da rendere difficile riconoscere quali siano effettivamente gli strumenti che le producono: una vera festa di nuovi timbri musicali per orecchie sveglie e curiose. Questa festa s’interrompe di colpo e non resta che una nota tenuta a lungo e pianissimo dal contrabbasso: su questo paesaggio sonoro spettrale, creato dallo strumento più basso dell’orchestra, s’inserisce lo strumento più acuto, l’ottavino, con un lamento formato da sole due note discendenti, ripetute più e più volte, poi riprese e variate dagli altri strumenti a fiato (in questo movimento il pianoforte si tiene per lo più in disparte) con sonorità ora delicate ora lancinanti, creando un’atmosfera profondamente luttuosa, che non può non colpire l’ascoltatore. Non staremo a descrivere tutto questo Concerto, anche perché non potremmo mai renderne nemmeno lontanamente il continuo pullulare di invenzioni. Riportiamo piuttosto le parole del compositore: “Presento qui il mio credo artistico: dimostro la mia indipendenza sia dai criteri dell’avanguardia tradizionale [notare l’ossimoro, certamente voluto] sia dal postmodernismo alla moda”.

Il Concerto per violoncello e orchestra  (1966, quindi quasi coetaneo di quello per pianoforte) rispetta in qualche modo le aspettative suscitate da un solista serioso come il violoncello, che suggerisce a Ligeti un inizio estremamente austero, con un un mi bemolle suonato talmente piano  (indicato con ben otto p)  da essere assolutamente impercettibile, finché un lungo crescendo porta a distinguere un flebile sibilo, che viene rafforzato dall’entrata graduale degli altri archi e poi degli strumenti a fiato. La vivacità e i colori del primo movimento del Concerto per pianoforte vengono qui sostituiti da immobilità e monocromia, sono quindi due mondi sonori agli antipodi, ma altrettanto affascinanti. A questo movimento estremamente compatto e statico segue una seconda parte formata da tanti brevi frammenti eseguiti senza soluzione di continuità, talvolta simili tra loro e talvolta molto contrastanti, ma ognuno portatore di un’idea nuova, con una ricchezza d’invenzioni che tiene sempre desta l’attenzione, finché si ritorna al silenzio assoluto, come quello dell’inizio, che tuttavia ora “suona” in modo diverso.

Il Concerto per violino e orchestra (1990-1992) appartiene ad una nuova fase della musica di Ligeti, che dalla polifonia proliferante e pervasiva degli anni Sessanta passa alla monodia e significativamente sceglie come solista il violino, strumento monodico per eccellenza, che è qui il protagonista assoluto, a differenza del pianoforte e del violoncello, che erano primi inter pares nei due precedenti concerti. Il violino ha dei lunghi solo, di cui è particolarmente rilevante quello all’inizio del movimento intitolato Aria, che è una lunga melodia che si potrebbe definire addirittura belcantista. Non mancano altri momenti melodici, però spesso gli interventi di altri strumenti introducono le stridenti dissonanze, la frammentazione delle cellule musicali, le inedite soluzioni timbriche che sono la firma di Ligeti. I titoli degli ultimi due movimenti suggeriscono un ritorno al barocco (Passacaglia) e al romanticismo (Appassionato) che però non si riscontra poi nella musica. Invece nel Concerto da camera  (1969-1970)  le evoluzioni di piccole cellule sonore che si sovrappongono in un tessuto polifonico molto denso e compatto sembrano essere un rimando nientemeno che ai Concerti Brandeburghesi  di Bach, ma con le dissonanze, i ritmi irregolari e i timbri graffianti di Ligeti. D’altronde Ligeti era un compositore “matematico” come Bach.

Sull’esecuzione c’è poco da aggiungere. L’Ensemble Intercontemporain era una garanzia totale. Inappuntabili i solisti Hidéki Nagano (pianoforte), Renaud Déjardin (violoncello) e Hae-Sun Kang (violino) e perfetto il loro equilibrio con il piccolo gruppo orchestrale. Pierre Bleuse ha diretto con rigore ma senza rigidità, dando particolare attenzione e risalto alla novità e alla ricchezza delle idee e delle soluzioni di Ligeti.

Nel folto pubblico prevalevano gli addetti ai lavori, mentre purtroppo scarseggiavano gli ascoltatori “normalI”. Definire soltanto caloroso il successo è sicuramente riduttivo.

 

 

 

 

 

 

 

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