MusAnima scopre il nuovo
La rassegna dell'Istituzione Sinfonica Abruzzese
L’Istituzione Sinfonica Abruzzese ha promosso anche quest’anno MusAnima, una rassegna di nuove composizioni per orchestra, coordinata dal musicista pescarese Stefano Taglietti, e rivolta principalmente – ma non solo – alle nuove leve segnalate dalle classi di composizione di alcuni Conservatori: la presente edizione si è perfino ampliata nel novero dei Conservatori, coinvolgendo oltre le sedi abruzzesi (L’Aquila, Pescara, Teramo) pure quelle di Fermo, Frosinone e Latina, e ha ristretto le stesse partecipazioni ‘senior’ alla formula della commissione apposita. In due appuntamenti, hanno dunque visto la luce ben sedici nuovi lavori, 12 di studenti e 4 di figure già note nel panorama nazionale (Fabrizio De Rossi Re, Paolo Rosato, Carla Magnan, Edgar Alandia). Chi scrive, ha assistito alla seconda serata del ciclo: gli ascolti han sembrato disegnare un panorama abbastanza nettamente distinguibile nelle generazioni, non – intendiamoci – per qualità artigianale, che anche nei giovani autori è ormai assicurata (perlomeno nell’orchestrazione) da una preparazione accademica inappuntabile, ma – al netto di una maturità ancora in solidificazione in quest’ultimi – proprio sul piano della generazionalità estetica, della sua proiezione sulla concezione del suono e di un più generale ‘assetto linguistico-espressivo’ sinfonico. Una domanda però s’impone: è, questo, un risultato di un’effettiva e già maturata definizione estetica, o si tratta di una deformazione prospettica causata da un percorso ancora inevitabilmente in fieri, nei più giovani autori?
Ma procediamo con ordine. Huellas, y las que queden, que sean bellas, di Edgar Alandia, è radicato nell’estetica cui storicamente appartiene il compositore, quella dell’informale: gli stati della materia sonora, che insorge all’orizzonte e si sfrangia di continuo tra le zone timbriche dell’organico, dettano quasi senza una teleologia il tragitto formale; la sua terminazione è nient’altro che l’approdo a uno stato minimo della materia stessa. Legere flores di Carla Magnan rivela il lavorio di equilibrio dialettico tra materia e figura, che ha costituito l’orientamento prevalente – almeno in Italia – nella generazione dei nati nei decenni intorno al 1960, con un accento speciale (almeno negli ultimi decenni) proprio nel recupero più cospicuo dell’asse materico; organismi sonori vengono plasmati in un respiro ciclico del tempo e della materia, con una notevole capacità – grazie a un adeguato arsenale d’emissioni – di muovere le gradazioni di trasparenza e di (dis)integrazione del flusso strumentale.
Nei brani dell’ultima o dell’ultimissima generazione (anche qualche anno di differenza può avere il suo peso), invece, della ridefinizione dell’universo timbrico dell’orchestra e delle sue tecniche strumentali, o delle possibili relazioni all’interno della sua compagine, si è percepito solo episodicamente un profumo distante, e meno lontanamente una concezione non-schematica della forma, tuttavia risolta spesso in semplici strutture paratattiche. I modelli di scrittura storicizzati erano molto evidenti in Revelation di Stefano Befacchia e – per esplicita scelta – in Mémoires di Gianmarco Rossi. Reminiscenze delicate emergevano in La nui tdi Vincenzo Ruggiero, mentre i riferimenti a materiali ritmico-melodici fortemente denotati (tradizione popolare est-europea, un ostinato ritmico di fatto incessante anche se qua e là scompaginato), uniti a una brillantissima orchestrazione, facevano di Primo movimento di Andrei Octavian Popescu una sorta di equivalente musicale di un’iper-realismo pittorico, calibrato su autori quali Rota o Prokof’ev. Elementi estratti da idiomi jazzistici, decostruiti e ricontestualizzati, galleggiavano entro la texture sinfonica di You’ve Got To Have (omaggio a Pharoah Sanders) di Dario Peluso, in un’abile contemperanza di logica frammentaria e continua; The falling rise di Manuele La Puca era forse il lavoro più continuo, sul piano della condotta formale, senza rinunciare a ben profilate curvature, dilatazioni e rarefazioni della materia.
Ė facile – e dopotutto non scorretto – riunire i differenti orientamenti dell’ultima generazione sotto il cappello del postmoderno: il dover-essere estetico e linguistico proiettato in avanti del moderno è stato disinnescato, e l’assunzione di quanto oggi musicalmente si offre alla sonosfera (verticalmente, verso il passato, o orizzontalmente, verso vari repertori e culture musicali) è in ogni caso lecito, sulla base della motivazione estetico-linguistica del compositore di ‘musica d’arte’. Ma riaffiora, così, la questione di due capoversi sopra: se si tratta veramente di una tendenza estetica generazionale, il delimitato o scarso interesse per il sinfonismo delle neoavanguardie recenti è un’ovvia spia dei corsi e ricorsi storici, per cui i figli tendono a negare i padri (e a cercarseli tra avi più distanti e tra outsider della generazione precedente)? è forse, questa, una falsa prospettiva, che andrebbe riverificata tra alcuni anni, una volta che tutti i protagonisti avranno scollinato la fase di formazione? o è un indotto della crescente istituzionalizzazione del fare creativo, per cui la sperimentazione radicale ha ormai le sue cittadelle (istituzionali anch’esse, sotto alcuni aspetti), mentre un contesto di istituzionalità sinfonica consiglia fatalmente di mettere a profitto al meglio gli assetti tradizionalmente coltivati in quegli organici?
La kermesse ha avuto il merito di porre sul tavolo tali questioni, portando alla luce ben sedici nuove composizioni, e assolvendo pienamente il suo intento di porsi quale osservatorio culturale particolarmente rivolto alla situazione compositiva attuale; e il plauso va esteso al direttore, Marco Moresco, e all’Orchestra Sinfonica Abruzzese, che ha attraversato brani così diversi con dedizione e professionalità esecutiva. Per chi volesse approfondire, presentazioni, interviste ed estratti delle esecuzioni sono disponibili sulla web radio RadiostArt, nella trasmissione Clocks and Clouds.
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