Mosè in Egitto a Napoli nel bicentenario
L'opera di Rossini al Teatro San Carlo di Napoli, nell'allestimento della Welsh National Opera diretto da David Poutney.
20 marzo 2018 • 2 minuti di lettura

Teatro San Carlo, Napoli
Mosè in Egitto
15/03/2018 - 15/03/2018Appena si spengono le luci il teatro viene avvolto nelle tenebre, assolute, più del solito, tanto che si fatica a scorgere i gesti del direttore. Inizia con un buio profondo il nuovo Mosè in Egitto di Rossini al Teatro di San Carlo di Napoli (15-20 marzo), nel suo duecentesimo anniversario dalla prima rappresentazione nel medesimo teatro il 5 marzo 1818.
Sulla scena troneggiano due muri, uno rosso, l'altro blu, quasi immobili come totem per tutti i tre atti dell'opera, tipo cactus nel deserto. Fanno da sfondo rispettivamente a egiziani ed ebrei, che indossano costumi di Marie-Jeanne Lecca nei medesimi cromatismi. Collocati al centro, ma dietro ai cantanti e al coro, durante l'opera verranno girati e rigirati fino ad essere calcati dagli interpreti, con un notevole effetto simbolico, o di meraviglioso barocco, ma niente di più. Con la postazione dei cantanti sul saliscendi delle mura, tra l'altro, nel punto meno felice in quanto a sonorità, è sembrato tutto un po' banale.
Questo è il gesto caratterizzante della regia di David Poutney, che insieme a Polly Graham e Raimund Bauer per le scene, e Fabrice Kebour per le luci, firma a Napoli quest'allestimento della Welsh National Opera. Ma Mosè in Egitto è un'azione tragico sacra che fa perno principalmente sul movimento instabile, erratico, inquieto e disperato della partenza degli Ebrei. Come fa perno, la musica di Rossini, su uno stile grave, drammatico e patetico.
Dunque, sulla carta forse, è anche coerente la scelta da parte del regista di rileggerla in modo semplice ed astratto. Ma non risulta ideale per l'ascolto, slegata in tutto dalla musica che è cangiante nei tre atti, misteriosa, tenebrosa all'inizio, eterea e sublime nel finale. E questo è un errore. Perché la musica, sempre in Rossini, ancor più nelle composizioni serie, è l'anello centrale della sua genialità. Ma di questo mondo stravolto, viaggio alla ricerca della libertà, dietro alle acque che si aprono, resta impressa la solitudine di Mosè e del popolo ebraico, che diventa tutt'uno con la voce dell'orchestra.
Un buon Mosè, Giorgio Giuseppini, un ottimo Faraone Alex Esposito ed in particolare Enea Scala in Osiride, con timbro unico e sì dolente nel registro acuto, sono protagonisti a tutto tondo. Toccante l'interpretazione di Elcìa, Carmela Remigio, severa, pragmatica, ben decisa a raddrizzare i sogni dell'amante, il duetto è un incanto di intonazione e fraseggio cullanti. Amaltea è la spigliata Christine Rice, dominante. Nessuna difficoltà seria incontra la terna Alasdair Kent in Mambre, Marco Ciaponi in Aronne e Lucia Cirillo in Amenofi, dove deve uscire tutto il Rossini abissale dell'opera seria.
L'orchestra scivola in una sontuosità timbrica e musicale un po’ ispida, ma ben articolata ritmicamente, segnata da una direzione di Stefano Montanari sin dall'inizio dispensata con esatto controllo. Autenticamente rossiniana.