Mehta e Bollani al San Carlo

Napoli: Da Gershwin a  Stravinskij

Mehta e Bollani
Mehta e Bollani
Recensione
classica
Teatro San Carlo di Napoli
Mehta e Bollani
30 Settembre 2018

Zubin Mehta, dopo la IX Sinfonia di Beethoven ad inizio mese e il successo della tournée a Bangkok, è ritornato sul podio del teatro di San Carlo di Napoli. Davanti a lui una falange sterminata di orchestrali e il palcoscenico gigante sul fondo fino all'estremo. Al turno domenicale delle 18 una sala traboccante, festosa, in tripudio. Più sobrio del solito, quasi schivo, rigoroso, Mehta ha concertato, con Stefano Bollani al pianoforte, Rhapsody in blue di George Gershwin. Poi ha sfoderato la bandiera delle grandi rivoluzioni musicali del Novecento: Le Sacre du Printemps di Igor Stravinskij, cangiante, ricondotto al suono primordiale, a tratti eccessivamente smaterializzato. Pagina non facile da restituire questa della Sagra, ma l'Orchestra del Teatro di San Carlo è apparsa in ottima forma. Migliorata, osa di più, e verrebbe da dire che il lavoro di Valchua sta cominciando a dare i suoi frutti. Con Mehta poi, l'Orchestra ha sempre cercato questa dimensione: trasformando la forma nel contenuto, sorvegliando con prudenza il rigore dei tempi, calibrati, mai spicci, senza balzi scontati e retorici. Le arcate lunghe e profonde nei ritmi ostinati risultavano pesanti come elefanti, di grande effetto ed emotività, meno incisivi i vari trilli sparsi nella partitura della Sagra, ma comunque una buona prova di tutte le sezioni, dai fagotti in poi, colori, timbri arrivavano a spatolate, a onde avvolgenti, mentre i ritmi emergevano nei fraseggi. La seconda parte della Sagra entrava sottovoce, nel suono e nel portamento, Mehta scioglieva tutto il mistero del sacrificio - che è poi ricerca, destrutturazione e invenzione - sovrastato da un materiale ribollente che lo devasta in un virtuosismo d'assieme. Apre il concerto, il taglio meccanico, affilato e grottesco dell’Ouverture dal Candidedi Leonard Bernstein, nel finale molto vivace, mai sentita così a rotta di collo, vitalissima nel tema ai violini. 

A seguire, Bollani entrava preparato dal tappeto smagliante e vellutato del si bemolle della rapsodia di Gershwin, sciolto con finezza dal jazzista italiano, anche se, taluni strumentisti in certe sale e con poderose orchestre mostrano suoni deboli e inadeguati. Quando il suono del solista non incide ed è sovrastato dall'orchestra, si perde praticamente il senso della musica, il suono. Ci sono pianisti che conservano la cavata incisiva e profonda come Jarrett ed altri Chick Corea e Bollani ad esempio, che per le troppe esperienze in amplificato hanno perso il tocco. Quindi si è goduto del pianoforte soltanto negli interventi solistici importanti della rapsodia, dove Bollani cercava di spostare l'asse interpretativo sul fronte più espressivo e passionale con note sospese, accelerandi improvvisi, diminuendo impercettibili. Intorno un pubblico entusiasta, a tratti un po' rumoroso, tra tossi e caramelle, ma che non poteva non raccogliere la suggestione del bis di Caravan Petrol. Poi a concludere Tico-Tico. Bollani diverte e si diverte ed il suo spettro sonoro si arricchisce di intuizioni da Carosone e Rota a Zappa. 

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