Massimo di Palermo: Verdi nostro contemporaneo
Una controversa, ma stimolante ed efficace lettura di Les vêpres siciliennes con la regia di Emma Dante e Omer Meir Wellber ha aperto la stagione lirica palermitana
La stagione operistica 2022 del Teatro Massimo si è aperta con un nuovo allestimento, firmato nella regia da Emma Dante e la sua équipe, di Les vêpres siciliennes: spettacolo destinato a far discutere, ma che certamente non ha annoiato.
Peraltro, l’associazione tra mafiosi spadroneggianti e conquistatori francesi da un lato, tra popolani inermi e conquistati palermitani dall’altro, è apparsa – al di là delle più o meno controverse semantizzazioni – anche un mezzo per sviluppare elementi dei codici scenico-teatrali da opporre e combinare, tanto sul piano della mera forma (cromatica, di disposizione e raggruppamento, prossemica-gestuale), quanto della de- e ri-funzionalizzazione di specifici elementi: i mafiosi-francesi indossano sgargianti tute acetate e hanno il revolver pronto, attributi classici della manovalanza delinquenziale di base, qui tradotti in vera e propria divisa, ma Guy de Montfort è un Superman dalle magnetiche spalle larghe, rilanciando così oltre un perimetro chiuso il gioco degli elementi; il popolo di Palermo indossa sempre abiti o veri e propri costumi tradizionali, rigorosamente scuri, con l’eccezione delle spose nell’altrettante popolare-tradizionale bianco (però il loro ratto si consuma con le gonne rivoltate in secchi neri da spazzatura). Il bianco delle scale e delle statue di Piazza Pretoria, la cui cancellata servirà da prigione nel quarto atto, stacca per contrasto soprattutto negli atti esterni: sembra un richiamo di bellezza assoluta, perfino di seduzione, ma è pure il teatro del conclusivo, repentino, folgorante precipitare tragico degli eventi, nonché dell’azione – a fine primo atto, in coincidenza del primo ballo – che più ha ripensato (con la consequenzialità drammaturgica che si riesaminerà in chiusura) il testo di partenza, e insieme più ha indispettito una parte del pubblico. La doratura invece ha contraddistinto elementi in buona parte legati all’immaginario popolare: i pupi-paladini, agitati – secondo un linguaggio corporeo abituale nella Dante – da una motilità da giocattolo impazzito, rovesciati inanimati (a sipario ancora chiuso) da un carretto di robivecchi mafiosi; la Santuzza della processione contro la peste, malcerta e squilibrata nell’incedere, finché le sue devote non compiono un pio quadretto con tanto di lucine; è però anche il colore abbagliante della festa, durante la quale si manifesta – ancora ignoto agli altri – un legame forte e inatteso tra Guy ed Henri.
L’apparato visivo insiste molto sulle icone degli eroi e dei luoghi della lotta alla mafia, aggiungendoci un carico di ritualità collettiva: l’effige di Paolo Borsellino, ad esempio, sta sullo stendardo memoriale del fratello di Hélène, condannato a morte dal nuovo potere. Il testo spettacolare pone dunque questioni di coerenza, o persino di etica, nella configurazione interna ed esterna dei suoi elementi: i personaggi, nell’assetto drammatico dell’opera verdiana, sono mossi da forze già determinate dagli antefatti familiari individuali, non collettivi), che impediscono qualunque scioglimento conciliatorio, e anzi portano alla morte tragica proprio il fulcro – Henri – di quel tentativo. Pur entro un’ambivalenza romantica (vendetta e amor di patria), il motore oscuro e cospirante di tale fato è Procida, e può far specie doverlo associare – nella sua funzione interpersonale – all’ombra di un servitore della collettività Stato. La strategia sembra dunque quella della combinazione e della correlazione di segni a partire da un campo dell’immaginario, in modalità liberamente provocatorie di reazioni emotive e di cortocircuiti di senso: dopotutto, quei segni rimandano a un ‘antico radicato’ e a un ‘nuovo importato’ (e, a loro modo, i francesi lo furono, nel Duecento meridionale), alla violenza di un potere sopraffante, al dovere della rivolta civile se non si vuol convivere da soggiogati con quella violenza (e la massa, nell’opera di Verdi, ci mette un po’ a ribellarsi veramente…). Quei segni, insomma, oltre la loro incisiva strutturazione formale, risultano sicuramente efficaci e tutto sommato ‘aperti’ nella generazione del senso: può darsi che la conclusione del primo atto (prima scena a due Guy-Henri) sia un po’ statica rispetto al resto, che alcuni elementi siano ipertrofici (perché l’immagine della madre morta a un certo punto galleggi e si muova alla Loïe Fuller, non è chiaro), ma al termine la maggior parte del pubblico ha applaudito con molto calore l’équipe responsabile della regia, indizio che essa ha in qualche modo colto il bersaglio di non lasciare indifferenti gli spettatori.
La direzione musicale di Omar Meir Wellber ha costruito subito, dalla Sinfonia, una tavolozza di colori e dinamiche, molto attenta alle suadenza delle mezze tinte e dei gradi tenui, in modo da ottenere contrasti plastici senza spingere troppo. Ne aveva bisogno una parte della compagnia, alle prese con impegnativi ruoli protagonistici e – a quanto si sa – con cambiamenti dell’ultima ora: Selene Zanetti (Hélène) ha retto nelle parti cantabili e più intimistiche, ma è andata in difficoltà ogni qualvolta la parte richiedeva una tecnica ferrata di agilità e di acuti; Leonardo Caimi ha fatto il possibile per un ruolo non ancora alla sua portata, ma ad entrambi va dato atto di aver funzionato bene da attori. Molto solido ed espressivo, sia negli eroici furori sia nei ripiegamenti, il Guy de Montfort di Mattia Olivieri; granitico, qualche volta sopra le righe in una vocalità quasi verista, ma indubbiamente efficace il Procida di Erwin Schrott. Ruoli minori e coro hanno ben figurato, nell’ottica di una partitura e di uno spettacolo complessi da realizzare, soprattutto – immaginiamo – in tempi pandemici.
Tornando in chiusura all’azione dei balli finali del primo atto, il pubblico sarà stato sollecitato dall’esplicita azione d’imbruttimento della bellezza (la splendida fontana di Piazza Pretoria gradualmente coperta di spazzatura e oggetti vecchi e sporchi, trattata come discarica a cielo aperto, entro la quale con eterea imperturbabilità un’isolata danzatrice si muove cercando piccoli spazi praticabili), ma probabilmente scioccato dalla traduzione in arrangiamento klezmer (contrabbasso, fisarmonica, clarinetto) della musica. Nessuna sorpresa: nella realtà di quasi tutti i giovedì sera, almeno fino a due anni fa, nell’adiacente Piazza Bellini (dall’altra parte del Palazzo delle Aquile), si riuniscono informalmente giovani e meno giovani praticanti della danza popolare, a volte accompagnati dal vivo; in uno spazio magnifico (vi si affacciano le Chiese dell’Ammiraglio e di San Cataldo, perfino un teatro) ballano insieme senza necessariamente conoscersi, senza distinzioni di nazionalità e di classe, e spesso su balli di origine francese molto apprezzati nella comunità danzante palermitana; tutti sono educatissimi e civili, e nessun rifiuto è mai stata lasciato a terra, ogni volta che mi è capitato di assistere al flash-mob danzante. La première si è tenuta un giovedì sera; dopo la rappresentazione, son passato in quelle piazze; nonostante la temperatura fosse gradevole, ovviamente non stava danzando nessuno.
Fino al 19 aprile Les vêpres siciliennes si possono vedere sul sito di Arte
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