Le solitudini di Janáček e Poulenc

Roma: due atti unici, con la classe di Anna Caterina Antonacci e altri ottimi interpreti

MM

22 ottobre 2025 • 6 minuti di lettura

La voix humaine (Foto Fabrizio Sansoni, Opera di Roma)
La voix humaine (Foto Fabrizio Sansoni, Opera di Roma)

Roma, Teatro Nazionale

Janacek, Poulenc

18/10/2025 - 24/10/2025

Nelle sue tre precedenti stagioni il Teatro dell’Opera di Roma ha offerto al suo pubblico il “trittico scomposto”, ovvero i tre atti unici pucciniani abbinati ciascuno ad un atto unico di Bartok, Ravel e Dallapiccola, dimostrando così la piena appartenenza al secolo appena trascorso della musica di Puccini, spesso erroneamente ridotta al suo aspetto strappalacrime, per colpa di noi borghesucci italiani, non di Puccini. Ora è stato presentato un altro dittico, che accostava due compositori europei a prima vista diversissimi ma con più di un punto di contatto: erano “Il diario di una scomparso” (Zápisník zmizelého) di Leoš Janáček e “La voce umana” (La voix humaine) di Francis Poulenc. Anche questo si è dimostrato un abbinamento ben congegnato e ha colpito nel segno. Non sappiamo di chi sia il merito (tutto lascerebbe pensare che sia del direttore artistico dell’Opera, Paolo Arcà) ma non è questo l’importante.

Sia “Il diario di una scomparso” che “La voce umana” consistono in un dialogo, che però non è un vero dialogo, perché l’altro/a non dialoga affatto con il o la protagonista. Allora sono due monologhi, direte voi. Sì, eppure no, perché l’altro personaggio è comunque molto presente. La questione non è così semplice, quindi cercheremo ora d’entrare nel modo più sintetico possibile nello specifico di questo dittico.

Si iniziava col “Diario di uno scomparso” di Janáček composto nel 1917-1919 in forma di un ciclo di Lieder per tenore e pianoforte, ma con l’intervento di un mezzosoprano in tre dei ventidue brani e di un terzetto di voci femminile in un altro brano e con un singolo brano per pianoforte solo, che “descrive” l’amplesso tra i due protagonisti. È un’opera destinata alla sala da concerto ma Janáček in alcuni punti ha scritto sulla partitura delle indicazioni sceniche, come “semi oscurità sul palco” o "dietro la scena", che avvalorano l'ipotesi che in un primo momento avesse concepito questo suo lavoro come un'opera da camera.

In effetti questo “Diario” guadagna non poco da un’esecuzione teatrale rispetto alla versione concertistica. Lo spettacolo che il regista Andrea Bernard e lo scenografo Alberto Beltrame hanno ideato per il Teatro Nazionale (secondo palcoscenico della fondazione lirica capitolina, che funziona piuttosto bene per le opere da camera) è semplice e lineare, ma non rinuncia a prendersi delle libertà rispetto al testo. Si svolge infatti nella stanza di un albergo di lusso dal freddo stile architettonico razionalista di circa il 1930, mentre il protagonista dovrebbe essere un contadino che ara la terra con i buoi: in realtà quel presunto contadino - che non per caso si chiama Janicek - è “figura” di Janáček, come affermò il compositore stesso, che aveva origini popolari ma non era certamente un contadino sempliciotto. Similmente la donna, che appare brevemente in scena e vive soprattutto nei ricordi dell’uomo, è descritta come “una bella gitana, che di cerbiatta ha il passo, nere le trecce sul petto e scuri gli occhi d’abisso”, ma in realtà rappresenta la ragazza borghese che fu il grande amore degli ultimi anni del compositore. Come scrive il regista, questa donna incarna “un eros viscerale”, che fa nascere nell’uomo un senso di colpa e allo stesso tempo gli dà la forza di rompere con la vita precedente e con i vincoli e le convenzioni sociali che ne derivano.

A parte i piccoli interventi della donna e quelli di tre voci femminili che cantano poche parole “dietro la scena, quasi impercettibilmente”, il “Diario di uno scomparso” è un monologo, così come è un monologo quello della protagonista della “Voix humaine”, che parla al telefono con il suo ormai ex amante, che l’ha abbandonata senza tanti complimenti e che resta invisibile e inaudibile per gli spettatori.

Bernard inventa alcuni dettagli a dire il vero non essenziali per mettere in rapporto e allo stesso tempo differenziare il “lui” di Janáček dalla “lei” di Poulenc. Colloca infatti questi due drammi in miniatura in due stanze pressoché identiche dello stesso albergo. Sicuramente per sottolineare il suo carattere austero, immagina che il protagonista di Janáček respinga il carrello con una bottiglia di champagne che un invisibile cameriere introduce nella stanza. Invece la protagonista di Poulenc lo accetta e ne beve subito un calice, poi un altro, per dimostrare che è una rappresentante brillante e un po’ fatua della “buona” borghesia parigina. In Janacek l’uomo e la sua amata si liberano dei vestiti e si chiudono nel bagno per realizzare il loro amore, mentre nell’atto unico di Poulenc il bagno (evidentemente inteso dal regista come ricettacolo di amori peccaminosi) accoglie l’uomo amato dalla protagonista e la sua nuova amante.

Ma quel che accomuna veramente le due diverse storie d’amore non sono tali piccoli dettagli ma la solitudine. “Una solitudine - scrive Bernard - che si rispecchia nella freddezza di quelle stanze d’albergo ma è soprattutto una condizione dell’anima: uno stato che deforma il tempo e lo spazio, li piega, li svuota, li trasforma in gabbie invisibili”. Gli sviluppi saranno diversi, perché l’uomo di Janáček trova nell’amore la forza per iniziare una nuova vita, mentre la donna di Poulenc non ha futuro senza l’uomo che ama e piomba in una disperazione senza via d’uscita: il finale resta aperto, ma si può pensare che metta fine alla sua vita.

In “Diario di uno scomparso” la regia è sobria come il testo, che è (o sarebbe) stato scritto nel 1916 da un contadino della Moravia, che si dileguò nel nulla, lasciando come sola traccia alcune sue poesie scritte su un quadernetto: un caso di cronaca di cui i giornali dell’epoca parlarono a lungo. Ben diverso il testo della “Voix humaine” - scritto nel 1919 e quindi quasi contemporaneo a quello di Janáček ma messo in musica da Poulenc quarant’anni dopo, nel 1959 - che è molto più ricercato e complesso: non per nulla ne è autore un sofisticato uomo di cultura, qual era Jean Cocteau. Il fatto che che quella telefonata sia iperdrammatica e che la donna ne faccia veramente una tragedia, mi ha fatto sempre pensare che Cocteau - e Poulenc con lui - vi abbia messo una buona dose d’ironia, sebbene molti non la percepiscano. Già è chiaramente ironico dare a quest’operina in un atto la definizione “tragédie lyrique”, il genere operistico fiorito sotto Luigi XIV, che era strutturato in un prologo e cinque atti, con scenografie sfarzose e largo ricorso alle macchine teatrali, con la partecipazione del coro e ricchi quadri di danza, con eroi mitologici per protagonisti e interventi degli oracoli e delle divinità dell’Olimpo, ecc. ecc.

Cocteau per un verso condivide il dramma di questa donna, che trasforma un fatto comunissimo come la fine d’un amore in una “tragedia telefonica”, ma allo stesso tempo sottolinea sottilmente l’esagerazione melodrammatica delle sue reazioni, spinto anche da una certa dose di misoginia. E inserisce ripetutamente degli anticlimax quasi umoristici, come le interruzioni della linea telefonica, gl’interventi della centralinista, l’intrusione - a seguito d’un altro difetto della linea telefonica - di un’estranea che trova “ridicoli” i due amanti.

Eppure questa è proprio una tragedia, grazie soprattutto alla musica di Poulenc, che descrive obiettivamente e spietatamente sentimenti e parole dell’anonima protagonista. Anonima sì, ma in questo caso aveva un nome e un cognome ben noti: Anna Caterina Antonacci, che si è confermata interprete straordinaria, sbalzando con una continua varietà di colori, di sfumature e di accenti i grovigli e i tormenti tra cui la protagonista si dibatte senza possibilità d’uscita. Giustamente la sua interpretazione punta decisamente sul lato tragico della situazione, ma in quella tempesta di parole in un bicchier d’acqua fa scivolare anche qualche tratto di appena accennata ironia.

L’accompagnava ottimamente il pianoforte di Donald Sulzen: la versione col pianoforte, preparata dal Poulenc stesso, non è affatto un ripiego, anzi è preferibile alla versione orchestrale, che rischia inevitabilmente di soverchiare la voce. Così come la scelta di un teatro di piccole dimensioni è stata vincente dal punto di vista sia musicale che teatrale.

Il “Diario di uno scomparso” è sicuramente meno esigente con gli interpreti ma non tollera sbavature, Il tenore Matthias Koziorowski è stato inappuntabile e Veronica Simeoni ha fatto un piccolo capolavoro nel cameo di Zefka.

Gli spettatori erano poche centinaia (abbastanza da esaurire o quasi i posti del Teatro Nazionale) e hanno saputo capire e apprezzare questi non facili capolavori del Novecento, applaudendo con convinto entusiasmo.