L’Angelica, opera del debutto di Metastasio e Farinelli

Questa “serenata” è una pietra miliare nella storia dell’opera, ma non è tra i capolavori di Porpora

L’Angelica (Foto Clarissa Lapolla)
L’Angelica (Foto Clarissa Lapolla)
Recensione
classica
Martina Franca, Festival della Valle d’Itria, Cortile del Palazzo Ducale
L’Angelica
30 Luglio 2021 - 03 Agosto 2021

Dopo Griselda, l’ultima opera di Alessandro Scarlatti, che nel 1721 segnò la fine di un’epoca, il Festival della Valle d’Itria ha rappresentato L’Angelica, che già l’anno precedente aveva aperto un’epoca nuova, perché fu l’occasione del debutto di due giovani che, più di qualsiasi compositore, sarebbero diventati i veri protagonisti dell’opera seria per i cinquant’anni seguenti: Pietro Metastasio e Carlo Boschi, divenuto poi celeberrimo col soprannome di Farinelli. Allora erano giovanissimi e naturalmente non erano ancora al vertice della loro arte: Farinelli aveva quindici anni e interpretava un personaggio secondario, Metastasio di anni ne aveva ventidue e abbozzò in questo libretto le linee che avrebbe seguito per tutta la vita ma non riuscì ad infondervi la nobile drammaticità della Didone abbandonata, dell’Olimpiade, della Clemenza di Tito e degli altri suoi libretti futuri, ognuno dei quali fu musicato da decine di compositori.

L’Angelica è dunque importante per la storia dell’opera ma non è un capolavoro e non rende piena giustizia ai due debuttanti e tantomeno a Nicola Porpora, un compositore allora già maturo, che di lì a qualche anno sarebbe stato capace di tenere testa a Haendel durante il suo periodo londinese. Preferendolo a Haendel, i londinesi avevano forse esagerato ma non avevano preso lucciole per lanterne, perché Porpora è un compositore di altissimo livello, uno dei pochi capace di tratteggiare i caratteri individuali dei personaggi dell’opera seria e di dare viva drammaticità alla statica struttura che proprio Metastasio le avrebbe dato. D’altronde Haendel stesso fu profondamente colpito, quando ascoltò la sua Berenice a Roma nel 1710.

    La grandezza di Porpora traluce qua e là anche nell’Angelica, che però impallidisce al confronto le altre opere (poche) di Porpora recuperate negli ultimi anni. In realtà non si tratta nemmeno di un’opera ma di una “serenata”, cioè una di quelle opere di dimensioni minori adatte ad essere rappresentate in un teatro privato, nella fattispecie il teatro napoletano del principe Caracciolo, che certamente non era a corto di mezzi se, oltre a Porpora e alle sunnominate giovani promesse, si poté permettere di scritturare due celebrità come Marianna Bulgarelli, più nota come la Romanina, e Domenico Gizzi.

Metastasio prese l’argomento dell’Angelica da un noto episodio dell’Orlando furioso: la principessa cinese Angelica si innamora del giovane soldato saraceno Medoro e il paladino Orlando, a sua volta innamorato di Angelica, impazzisce per il dolore. Ma introducendo una seconda coppia di innamorati, i pastorelli Tirsi e Licori, e un vecchio saggio, Titiro, che dispensa stucchevoli massime morali, il poeta romano banalizzò questa fantasiosa vicenda, facendone una stucchevole storia di amori arcadici, simile a tante altre. Solo la scena finale della follia di Orlando presenta qualche elemento di originalità.

Il pubblico può consolarsi ascoltando la serie di arie scritte da Porpora, alcune splendide, altre meno: schematizzando, si può dire che queste oltre due ore di musica inizialmente scorrono senza brividi, ma migliorano molto nella seconda parte. Parallelamente migliora la prestazione dei cantanti. Il momento più alto è un’aria di Medoro con l’accompagnamento di un violoncello solista e del basso continuo, che danno un colore crepuscolare a questa lunga malinconica melodia, che incanta tutto il pubblico. Non è un’aria virtuosistica, perché si muove tra poche note ed è totalmente priva di abbellimenti, ma richiede grandissima arte: fiati perfettamente calibrati, timbro purissimo, espressione intensa ma interiorizzata: Paola Valentini Molinari fu perfetta. Subito prima e subito dopo quest’aria solo apparentemente semplice, Angelica ha due grandi arie molto virtuosistiche, fitte di colorature che vanno dal registro grave all’acuto, affrontate da Ekaterina Bakanova  con grande sicurezza. Poco dopo la follia d’Orlando conclude l’opera: Teresa Iervolino - che all’inizio era sembrata un po’ prudente, non totalmente all’altezza di quel che ci aveva fatto ascoltare altre volte – colse tutta l’originalità e la forza espressiva di questa grande scena.

Barbara Massaro e Gaia Petrone si sono fatte valere interpretando rispettivamente Tirsi e Licori, che hanno alcune arie più brevi, non eccezionali ma gradevoli: in particolare quelle di Tirsi - scritte per il quindicenne Farinelli, di cui Porpora era il maestro di canto - si differenziano dalle altre per una particolare vivacità “popolaresca”. Sergio Foresti, cantante che abbiamo avuto modo di apprezzare altre volte, era un po’ sacrificato nel ruolo non molto interessante di Titiro. Piuttosto generica la direzione di Federico Maria Sardelli e non sempre accurata la risposta dell’orchestra barocca La Lira d’Orfeo. Gianluca Falaschi è un ben noto costumista che in questa occasione debuttava nella regia: il risultato era che l’aspetto più notevole erano i bizzarri costumi di alcuni onnipresenti e non indispensabili mimi, mentre la regia era alquanto banale. Il pubblico, un po’ freddo durante la prima parte di questa “serenata”, si è scaldato strada facendo e alla fine ha applaudito molto calorosamente tutti gli interpreti.

 

 

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