L'Africa vista da Gaeta Jazz

Il collettivo PS5 e Khalab sul palco del Gaeta Jazz Festival

Gaeta Jazz Festival
Recensione
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Gaeta
PS5 - Khalab
16 Luglio 2021

Napoli è una condizione esistenziale. È un modo di essere, di parlare, di vivere, di suonare. Napoli ha il suo suono, che viene dal mare e che ritorna rigenerato ad una terra che parla, che urla forte, che crea movimento. La sera del 16 luglio, in occasione della tredicesima edizione del Gaeta Jazz Festival (uno dei festival più interessanti che dà importanza alle nuove visioni del jazz), iI collettivo PS5, guidato dal sassofonista e compositore Pietro Santangelo, ci ha portato tra le strade del Sud del mondo, in un viaggio di andata e ritorno, da Napoli verso altre direzioni.

Il live è l’occasione per presentare i brani di Unconscious Collective, il loro primo disco, uscito il 21 maggio per la label Hyperjazz Records, che si contraddistingue per una ricerca delle tradizioni musicali del Sud Italia, per la passione per la musica afro-americana e per i nuovi linguaggi della contemporaneità. L’ensemble è composto da Santangelo al sassofono tenore e quello soprano, da Paolo Bianconcini, brillante percussionista napoletano con un profondo background afro-cubano, da Giuseppe Giroffi, giovane e talentuoso sassofonista contralto e baritono, dal bassista Vincenzo Lamagna e dal batterista Salvatore Rainone, fedeli membri dell'ex trio Santangelo.

Il concerto è un esperimento musicale, dove il pensiero e il flusso di coscienza esplodono, per liberarci. Lo stato di trance indotto dalla musica dei PS5 arriva lentamente, tra sequenze ritmiche afrocubane e negli scambi fulminei tra Santangelo e Giroffi. I due sassofonisti si alternano battute in un discorso che affonda le radici nell’afro beat più puro, s’infiamma e si pacifica contemporaneamente. All’improvviso ci ritroviamo nel cuore caldo di Napoli, lì dove la storia della musica napoletana fa da basso continuo, ostinato. Siamo nel post James Senese, nel tessuto originario di Napoli Centrale, ma siamo anche in Giamaica, nella Nigeria di Fela Kuti, tra le braccia corpose di Cuba. Scosse continue ci spingono di fronte all’eredità di quel suono che si fa corpo, prende forma e si trasforma contaminandosi.

Il collettivo apre il live con il brano “Makeda” e in quei primi passi, nella scansione del tempo, comincia a camminare dettando un’andatura che si evolve, si arrampica su per la montagna spaccata dietro di loro, per precipitare nuovamente nella pancia della terra. Ci preparano, attraverso un rito di passaggio, ad aprire le porte delle nostre vite e ad abbandonarci completamente a noi stessi. Non è una perdita di coscienza, ma la liberazione di memorie antiche seppellite nelle nostre profondità, come nel brano “Amigdala”, un canto ripetitivo, in cui Santangelo e Giffoni (in un botta e risposta incessante), improvvisano seguendo linee immaginarie e incanalando una tensione che cresce vertiginosamente. Il loro linguaggio ha un’impronta definita, un’identità ferma, è fuoco ardente, rabbia sana, visione delle musiche del mondo. Ci lasciano sospesi tra lo spazio e il tempo e per un attimo dimentichiamo dove siamo.

È utile quando parte “Transe napolitaine” (il singolo del disco, il brano manifesto), perché in quel momento siamo ormai contaminati da tutte quelle frequenze e non c’è la paura di non riconoscersi. Napoli resta sullo sfondo, con la sua lingua, che si traduce in voce, odore, rumore, emozione e come un faro illumina la strada e, ad ogni cambio di tempo, disegna un cambio di direzione, una deviazione dello sguardo verso l’altro. La tensione si allenta quando dal mare, sotto l’occhio di una luna timida, arriva un vento caldo, che ci fa impazzire e pian piano ci culla al suono di una milonga suadente e delicata ("Šulūk”). Ci accarezza l’anima, prima di riconsegnarcela rinata. Il concerto si chiude di fronte a un pubblico rapito, pronto ad esaltare ancora il corpo, liberandolo definitivamente.

Il set elettronico di Khalab (il producer Raffaele Costantino, ricercatore attento dalla visione afrofuturista) infiamma il palco del Gaeta Jazz Festival. Il suo live è dedicato a Claudio Coccoluto, originario di Gaeta, recentemente scomparso. Con Khalab siamo nell’Africa scura, tra beat desertici e canti liberatori che invadono il corpo costringendolo a non fermarsi mai. Il vento porta folate di sabbia rossa, a pulsazioni irregolari. Si disperdono nei vicoli di città africane gremite di gente e si confondono tra le loro voci alterate, soffocate, a volte dall’urgenza del racconto. Perché ogni traccia è una diversa storia umana e musicale che si incatena all’altra attraverso una connessione misteriosa.

Durante il set riconosciamo lo spoken word della poetessa californiana Tenesha The Wordsmith (con cui Khalab ha collaborato in Black Noise 2084 – e le ha prodotto Peacocks & Other Savage Beasts), la voce unica del sassofono di Shabaka Hutchings, mixate a bassi cupi e frenati, in uno spazio sonoro fatto di ripetizioni ossessive e di atmosfere sonore cinetiche. L’equilibrio viene raggiunto anche grazie all’arrivo di beat più pacati, alle voci e ai suoni del M’berra Ensemble, collettivo di musicisti della Mauritania con cui il producer ha realizzato M’berra (disco pubblicato a marzo 2021 per la Real World Records).

Khalab ci guida in un viaggio visionario, in un mondo dove il corpo si era disabituato a liberare endorfine curative. Quando la musica si spegne, si è concluso il rito di passaggio, le luci si riaccendono e noi, ancora frastornati e sorpresi, ci guardiamo come di ritorno da un prolungato e reale stato di veglia.

 

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