La musica nel corpo di Angélique Kidjo 

Il Romaeuropa Festival si chiude con un inno alla diversità nella voce potente di Angélique Kidjo (alle prese con i Talking Heads)

Angélique Kidjo
Angélique Kidjo
Recensione
world
Parco della Musica, Roma
Angélique Kidjo
25 Novembre 2018

«Il mondo si muove sui fianchi di una donna» canta in "The Great Curve" Angélique Kidjo, e forse quel mondo si racchiude nel corpo esplosivo della sua musica, quello della prima diva africana. È un corpo antico che richiama le origini, si attacca alle radici della terra come una madre generosa, con una fisicità inarrestabile, ipercinetica, contemporanea.

La consistenza della musica di Angélique Kidjo regala continue tensioni futuristiche, visioni del passato e interpretazioni del futuro, imprescindibili le une dalle altre. Il suo live all’Auditorium Parco della Musica di Roma, in occasione della chiusura del Romaeuropa Festival, è un quadro sfavillante di rara potenza, di abbandono sensoriale, un dono che lascia lo spettatore in uno stato di profonda incredulità. Una celebrazione sonora, coreografica e strumentale dell’idea di diversità. Quando nel linguaggio musicale, così come in quello della vita, l’altro da sé non crea disorientamenti e paure si creano degli allineamenti perfetti, degli incastri creativi che stimolano profondamente l’immaginazione. Il nuovo disco dell’artista beninese, Remain in light by Talking Heads (2018, Kravenworks Records, prodotto da Jeff Bhasker, con la collaborazione di Ezra Koenig dei Vampire Weekend, Tony Allen, Blood Orange e molti altri) è infatti una re-interpretazione, un nuovo processo creativo del quarto album dei Talking Heads registrato dal gruppo insieme a Brian Eno nel 1980 e contaminato dall’influenza del musicista nigeriano Fela Kuti, dal funk, dalla poliritmia africana e dall’elettronica. 

Angélique kidjo

«Le idee africane erano molto più importanti da ottenere dei ritmi specifici» avrebbe dichiarato David Byrne facendo riferimento non solo alla forma, ma soprattutto ai contenuti dell’album. E proprio quelle cellule africane che viaggiavano inconsapevoli nell’album, sono state riportate alla luce dall’icona indiscussa della world music internazionale. Un mondo afropunk, un groove estasiante fatto di nuove architetture pop, movimenti sonori liquidi, linee di chitarra e incursioni prepotenti delle percussioni, che riescono a definire un ponte tra il mondo occidentale e quello africano. Grazie al suo modo di intendere la musica, coesistono mondi, culture, generi (funk, reggae, soul, jazz, hip hop, afrobeat), che si confrontano, s’influenzano, preservando ognuno la propria identità, in una comunicazione pulsante, densa, coerente. L’ingresso in scena di Angélique Kidjo, preceduto da schizzi fulminanti delle percussioni di Magatte Sow, segna l’inizio di una navigazione libera, per nulla prevedibile, in cui tutti gli elementi della natura vengono diretti dalla Madre, dalle sue tante voci, che si uniscono per «il mondo, la sua origine che è femminile, e che oggi è in pericolo, come le donne», afferma la cantante. 

Con "Once in a Lifetime", una versione più leggera, purificata dalle schizofrenie degli anni Ottanta, l’artista africana offre una partenza distinta in nome di una gioia celebrativa. L’operazione di africanizzazione dell’originale avviene  anche con i brani "Born Under Punches" e "Crosseyed and Painless", reinterpretati con poliritmi elettrizzanti della chitarra di Dominic Jefferson, cori a strati e un entusiasmo estatico.

L’originale con Angélique Kidjo diviene così un’opera aperta, un’esaltazione delle contaminazioni già pulsanti quaranta anni prima. Nel rispetto del passato l’artista colpisce con forza i dettagli più interessanti, sviluppandoli oltre qualsiasi previsione, rincorrendo l’idea di coesione di tutti i mondi possibili, nella musica e nella vita. Si sente nelle inflessioni jazz di "House in Motion", nella muscolosità della batteria di Edgardo Luis Serka Mimica (Tony Allen nel disco), nell’elasticità della linea di basso di Michael Olaleye Temitayo Olatuja che ricorda quel lavoro plastico di Tina Weymouth e nel tocco fisico del pianista Thierry Valton.

La temperatura aumenta e il corpo si riscalda sempre di più: l’Africa si fa strada in una dimensione di poliamore. E quando parte "Pata Pata" della Mama Africa Miriam Makeba, il pubblico non resiste, mentre il turbine della Kidjo avvolge progressivamente tutti gli spettatori, che si riversano sul palco, sempre più vicino alla sua forza, per respirarla, per contaminarsi. Il suo rito è aperto, vulcanico, autentico. Nello spirito della Kidjo si respira disperazione e incoraggiamento, soprattutto in brani come "Listening Wind", o "The Overload", nell’originale più oscuri e distaccati, qui invece, pieni di una tensione riverberante, sostenuta da andamenti ondulatori delle percussioni, da intromissioni elettriche scomode e dalla sua voce resiliente.

Non osserva regole precise, Angélique Kidjo, il suo richiamo all’arte è un continuo lasciarsi andare, è un affidamento totalizzante, anche vulnerabile, nei confronti del tornado musicale che crea con i suoi musicisti. «Vorreste vivere in un mondo dove quando esci di casa incontri il tuo clone? Ma no di certo! Perché quando odi qualcuno, alla fine della giornata, sei solo un perdente», intona austera dal palco.

La voce di Angélique Kidjo è anche impegno sociale, rivendicazione politica, ricordo della malattia degenerativa del mondo: la perdita dell’umanità. La sua responsabilità nei confronti dell’umanità risuona e s’illumina ad ogni elevazione, al passaggio ad ogni grado superiore e stabilisce congiunzioni metafisiche ogni volta inaspettate.

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