La libertà nella musica dei Kokoroko

Il Roma Jazz Festival si apre con la trasformazione dell’afrobeat dei Kokoroko 

Kokoroko
Kokoroko
Recensione
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Roma, Monk
Kokoroko
01 Novembre 2019

E se dalle scale del paradiso ieri sera fosse sceso un dio? Credo che se fosse stato tra noi, di sicuro avrebbe ballato senza pudore, dall’inizio alla fine. Subito dopo avrebbe spalancato le porte del suo regno, battezzandoci in nome del jazz e di questo spirito musicale elevato, libero, che non accetta barriere, le abbatte. E sono certa che anche lui, il divino, incuriosito da quell’energia piena di memoria e di sperimentazione, durante il sacramento dell’afrobeat, avrebbe fatto sue le parole di Angela Davis, gridando a squarciagola: «la libertà musicale è una lotta costante». 

«La libertà musicale è una lotta costante».

Quello dei Kokoroko, gruppo afrobeat composto da otto giovani musicisti inglesi, che rielabora il passato riadattandolo liberamente, è un atto di resistenza in nome della musica e di una inviolabile identità creativa. Sul palco del Monk, in occasione dell’apertura di una grande stagione del Roma Jazz Festival, che quest’anno parla di confini liquidi e dell’abbattimento dei muri, i Kokoroko convincono con la lettura delle loro sacre scritture, che parlano del bene della musica e della sua indipendenza.

In prima linea i fiati del gruppo, a cominciare dalla band leader, la trombettista Sheila Maurice-Grey, che nei suoi assoli sprigiona amore per la libertà, passando per la sassofonista Cassie Kinoshi e per la trombonista Richie Seivwright. Nel secondo strato il tastierista Yohan Kebede, il chitarrista Tobi Adenaike (al posto di Oscar Jerome), il batterista Ayo Salawu, il percussionista Onome Ighamre Edgeworth e il bassista Mutale Chashi

Sono otto elementi separati, che abitano un corpo unico. Non c’è solo un senso di orgoglio che li tiene uniti, o un senso di appartenenza ad una specifica terra musicale, quella di Fela Kuti, di Seun Kuti, di Dele Sosimi, Tony Allen, Ebo Taylor e Pat Thomas. C’è soprattutto una fortissima complicità, che durante la performance si traduce in un gioco fatto d’improvvisazione, di puro divertimento, di esplorazione, di sezioni ritmiche attrattive che si rincorrono e scuotono il pubblico estasiato. Un quadro composto da figure di donne e uomini che s’impossessano della scena con semplicità ammaliante, danzando e suonando in un rito che induce quasi a uno stato di trance. Tutti sono parte attiva della nuova scena jazz inglese che si muove a ritmo costante, che ondeggia di continuo e che insieme ad altri musicisti (Shabaka Hutchings, Nubya Garcia, Moses Boyd, Theon Cross, i Maisha), sta crescendo attingendo dal passato. 

Sono figli della diaspora afro-caraibica, hanno attraversato le migrazioni insieme alle loro famiglie, abitato i distretti di Londra e i banchi di scuole jazz, dove si sono formati. Oggi rivendicano quel patrimonio musicale, storico, sociale e politico dal quale provengono, in modo coraggioso, quasi combattivo. Le loro formule compositive partono dall’afrobeat, per amalgamarsi bene al jazz, al funk, alle musiche tradizionali dell’Africa occidentale, ai ritmi giamaicani, ai suoni delicati delle terre latine, e si distendono organicamente all’interno di questo paradigma musicale che chiamano Kokoroko, che in lingua urhobo (dialetto nigeriano) significa “essere forti”. 

Il primo brano è "Uman", che oltre a essere il titolo del loro primo EP (Brownswood Recordings, 2019), suona come un monito, una sveglia che continuiamo a rimandare, ma che ci ricorda quanto gli stereotipi sociali sulle differenze di genere, di razza siano ancora marcati. Dedicato alla madre della band leader Maurice Grey, il brano ci mette di fronte alle contraddizioni che abitiamo quotidianamente, rimarcandole con forza nei dialoghi a blocchi tra i fiati, nei riff ipnotici del basso e della chitarra o nel coro penetrante a tre voci sulla parola Uman, che viaggia su controllate scale africane.

Il live prosegue con brani inediti, in cui le fibrillazioni travolgenti degli assoli del chitarrista Tobi Adenaike, o del tastierista Yohan Kebede, danno il tempo necessario per accorgerci che, in quell’istante, siamo tutti dentro un grande pensiero globale africano. Ce ne accorgiamo ancora di più quando parte "Blackout" o "Something Major" e la platea s’infiamma e con loro l’ottetto, che ormai viaggia su frequenze altissime, elettriche, dove anche il suono sembra in conflitto con se stesso. L’esperienza di una collettività unica, creata dai musicisti e pubblico continua sulle note di "Carry Me Home" (brano dedicato dai Kokoroko a Dele Sosimi), o "Oye Asem" di Pat Thomas. Lo stato di grazia arriva quando le linee nostalgiche della chitarra, o quelle dei fiati, colme di mal d’Africa, intonano "Abusey Junction "(brano che li ha lanciati nella compilation We Out Here, targata Brownswood Recordings nel 2018 e che ha raggiunto più di 33 milioni di visualizzazioni su Youtube).

Parte un lieve ondeggiamento, aggrappato al nostro religioso silenzio e a un’emozione profonda che attraversa tutti i corpi e si propaga ovunque. Si sente odore di terra bruciata, della guerra in Gambia, ma anche un senso di speranza, che si sviluppa in una composizione equilibrata, semplice. Kokoroko è la storia di tante identità artistiche che si esprimono in una lingua comune. È la forza di otto ragazzi che trovano la propria appartenenza in un nuovo mondo musicale, legati alle origini, ma ben radicati nel presente. 

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