La compattezza strumentale dell’Emerson String Quartet

La formazione newyorkese protagonista del secondo appuntamento del ciclo dedicato a Beethoven e Bartók alla Società del Quartetto di Milano

Emerson Quartet Milano
Emerson Quartet (foto di Eleonora Dottorini)
Recensione
classica
Milano, Sala Verdi, Conservatorio
Emerson Quartet
19 Marzo 2019

Per il pubblico della Società del Quartetto l’abbreviazione B&B ormai non rimanda più a pensieri vacanzieri, ma piuttosto ricorda alcuni degli appuntamenti più interessanti della stagione 2018-2019, ovvero quelli del ciclo Beethoven / Bartók, dedicato ai sei quartetti per archi scritti dal musicista ungherese e agli ultimi avveniristici lavori che il compositore di Bonn dedicò alla medesima formazione.

Protagonista del secondo concerto di questo ciclo è stato il celebre Emerson String Quartet, formazione newyorkese con alle spalle oltre trent’anni di carriera, tutti contraddistinti dal costante avvicendamento dei due violinisti Eugene Drucker e Philip Setzer nel ruolo principale, mentre l’attuale violoncellista, Paul Watkins, ha iniziato la propria collaborazione col gruppo nel 2013 sostituendo David Finckel. Non si può parlare dunque di un ingresso recente, anche se qualche cambio di marcia rispetto all’immagine graffiante che l’Emerson possedeva negli anni Ottanta e Novanta lo si è potuto percepire.

Impegnati, in apertura di programma, col terzo Quartetto di Bartók, i quattro strumentisti si sono immediatamente presentati con una compattezza di suono tale da richiamare alla mente l’espressione militare di "serrare i ranghi", riuscendo a consegnare al pubblico milanese una partitura dalla scrittura più che complessa, nella quale la fiducia nell’elaborazione, anche contrappuntistica, di motivi dal carattere popolare fa da contraltare a un profondo senso di inquietudine, fino a sfociare in momenti di particolare intensità. Particolarmente d’effetto è stato il gioco d’insieme e l’incalzare dei ritmi nella seconda delle quattro parti in cui è articolato questo lavoro, terminato dall’ungherese nel 1927 e grazie al quale vinse un concorso indetto dalla "Philadelphia Music Found Society”, ex aequo con Alfredo Casella.

Immediatamente dopo Bartók, senza intervallo, ecco il Quartetto op. 132 di Beethoven, che l’Emerson propone in una visione estremamente "terrena", sottolineando tutto lo sforzo che il compositore ha compiuto nel piegare la forma più classica del camerismo viennese alle nuove esigenze espressive che lo agitavano nel profondo dell’animo. Perfetta l’intesa dei quattro esecutori, bravi in particolare nel rendere la frammentazione della scrittura musicale, ma anche nel non caricare eccessivamente tutti i passaggi di questo celebre quartetto dove il tono espressivo appare ancora incline a un clima sereno. Eppure soprattutto nel toccante “Canto sacro di ringraziamento offerto alla divinità da un guarito” qualcosa è mancato a livello di intensità sonora: l’impressione è stata come se la ricerca di una dinamica esageratamente sommessa avesse penalizzato il risultato in termini di corposità e pastosità degli strumenti ad arco.

Lungamente applaudito al termine del concerto, il Quartetto Emerson ha regalato infine due bis, il primo dei quali – lo Scherzo dal Quartetto in mi minore di Giuseppe Verdi – è stato proposto con particolare brio, prima di continuare sulla stessa lunghezza d’onda con un altro scherzo, quello dal Quartetto in si bemolle maggiore op. 130, omaggio ancora una volta alla genialità di Beethoven.

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