Kirill Petrenko, grande interprete beethoveniano

All’Accademia di Santa Cecilia ha offerto un’interpretazione della Nona Sinfonia che ha come termine di paragone soltanto alcuni grandi direttori del passato

Kirill Petrenko
Kirill Petrenko
Recensione
classica
Roma, Parco della Musica
Beethoven, Sinfonia n. 9
04 Aprile 2019 - 06 Aprile 2019

Non credevo che ci fosse ancora qualcuno capace di dirigere Beethoven così. E tanto meno credevo che quel qualcuno potesse essere Kirill Petrenko, che evidentemente non conoscevo bene: dal vivo solamente un concerto Stravinsky-Šostakovič, poco utile a dedurre come avrebbe potuto interpretare Beethoven, e il Rheingold, ridotto a una dimensione umana e privato di ogni aura mitica e divina. Nulla lasciava prevedere una Nona Sinfonia come quella da lui diretta ora all’Accademia di Santa Cecilia, un’esperienza difficilmente raccontabile, da cui si è usciti inebriati e entusiasti: che non fosse soltanto un’impressione personale stanno a dimostrarlo gli applausi deliranti del pubblico, fin troppo rumorosi, quando si sarebbe desiderato il silenzio per trattenere più a lungo quell’emozione.

Non si dovrebbe mai scrivere una recensione subito, ancora fervidi di entusiasmo, ma probabilmente quest’entusiasmo non diminuirà col tempo… e allora tanto vale scrivere a caldo. Sono bastati pochi secondi per rendersi conto che in questa Nona Sinfonia Petrenko si fa carico di tutto il peso della grande tradizione interpretativa tedesca. Nonostante i molti aspetti personali, la sua interpretazione ci restituisce un Beethoven titanico, profetico, superumano: un’immagine di questa Sinfonia che oggi alcuni direttori (per esempio, Ivan Fischer ascoltato a Berlino pochi mesi fa) rifiutano, perché si è sviluppata in un secondo tempo, soprattutto ad opera di Wagner, grandissimo direttore beethoveniano. Ma Petrenko ci ha convinti - se mai ce ne fosse stato bisogno - che quell’aura quasi mistica non deve e non può essere eliminata, perché non è una superfetazione retorica ma la testimonianza di ciò che la Nona ha significato per generazioni e generazioni, facendone una pietra fondante della nostra civiltà.

Per la stessa ragione l’orchestra di Petrenko certamente non suona come possiamo immaginare che abbia suonato quella della prima esecuzione, nel !824: l’orchestra di allora era più piccola, quindi non poteva produrre certi fortissimo potenti e grandiosi, e ben difficilmente aveva la capacità tecnica e la coordinazione necessarie per affrontare senza sbandamenti certi tempi molto veloci di Petrenko, soprattutto - ma non solo - nell’Inno alla gioia, veramente dionisiaco. Infatti, dopo aver cacciato gli dei del Walhalla dalla sua interpretazione del Rheinglod, nella Nona ha convocato gli dei dell’Olimpo, soprattutto Dioniso, che domina nel finale ma fa sentire la sua presenza in ogni movimento, anche se temperata da quelle di Zeus nel possente primo movimento e di Apollo nel limpido Scherzo e nel sereno equilibrio dell’Adagio. 

Questo spirito dionisiaco Petrenko lo ha trasmesso all’orchestra, che ne è stata progressivamente sempre più invasata. Dall’orchestra ha estratto una forza travolgente, talvolta anche rude, messa a contrasto però con episodi di estrema delicatezza, tra cui è impossibile non citare la trasparenza e la grazia del dialogo tra gli strumentini nello Scherzo, la morbidezza dei quattro ‘solo’ dei corni nell’Adagio, la miracolosa epifania del primo corno (chapeau ad Alessio Allegrini) che improvvisamente e per pochi secondi viene ad interrompere come una voce lontana e misteriosa l’esaltazione dionisiaca del finale, in questo simile alla cadenza dell’oboe che sospende per un attimo la furia del primo movimento della Quinta.

Abbiamo affermato che l’interpretazione di Petrenko guardava alla grande tradizione tedesca. Sembrava di riconoscere l’ombra di Furtwängler - di cui sono andato subito a riascoltare la registrazione del 1942 - nella densità del colore orchestrale, nella tensione quasi insostenibile, nei contrasti laceranti, nelle esplosioni cataclismatiche. Ma forse l’esempio più vicino nel tempo di Karajan è quello più presente a Petrenko: certi dettagli erano simili e anche alcuni prodigi di tecnica direttoriale, ignoti a Furtwängler, come quei lunghissimi crescendo che sono delle vere magie, poiché in realtà i decibel aumentano di pochissimo.

Il gesto di Petrenko però è ben diverso da quello chirurgico di Karajan: lo definirei sovrabbondante, nel senso che non si limita allo strettamente utile e necessario ed invece è suggestivo, libero, fantasioso, non preoccupandosi sempre della scansione del tempo e degli attacchi, che giustamente ritiene superflui per un’orchestra ferratissima come quella di Santa Cecilia. Per lui la questione fondamentale di un’interpretazione non è raggiungere la precisione meccanica ma l’essenza profonda della musica: quella della Nona Sinfonia Petrenko la ha sicuramente catturata, come pochissimi altri ieri, oggi e probabilmente domani.

Prima di concludere non si può non ricordare la magnifica prestazione, oltre che dell’orchestra, anche del coro preparato da Ciro Visco. Assolutamente adeguati i solisti Hanna Elisabeth Müller, Okka von der Damerau, Benjamin Bruns e Hanno Müller-Brachmann: la prima è una mozartiana, la seconda una wagneriana, il terzo un cantante di oratori, il quarto infine è molto eclettico, ma Petrenko ha saputo amalgamarli tutti, chiedendo loro di non sentirsi dei protagonisti d’opera ma di essere come voci che emergono dal coro. 

 

 

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