Il Werther di Bernheim
Scala: Altinoglu dirige Massenet
Dopo 44 anni Werther torna alla Scala, sul podio Alain Altinoglu (nel 1980 fu Geoges Prêtre), che ha dimostrato di essere un direttore più che solido, capace di tenere sotto ferreo controllo buca e palcoscenico. Forse con qualche empito wagneriano di troppo, anche se non ci sta affatto male, ma comunque attentissimo ai tanti passeggi eterei e delicati della partitura. Protagonista, anche della serata, Benjamin Bernheim, tenore dalla voce imperiosa e dalla elegante presenza scenica, un Werther di alta classe, pronto a sfidare i tanti fortissimo dell'orchestra senza il minimo cedimento. Si aggiunga anche la sua capacità di assaporare ogni sillaba del libretto che arriva in sala ben scandita. A questo non è purtroppo in grado di attenersi Victoria Karkacheva (una Charlotte di bell'aspetto), perché il mezzosoprano canta le note, non le parole. Un limite ancora più evidente nel terzo atto, nella bellissima conversazione in musica con Francesca Pia Vitale che, oltre a impersonare una gioiosa e sognatrice Sophie, è invece in grado di rendere il francese del tutto trasparente. Jean Sébastien Bou nei panni di Albert e Armando Noguera in quelli del Bailli sono di voce decorosa e disinvolta presenza. Insomma, tirate le somme, un cast di buon livello. A cui si aggiungono i bambini del Coro di Voci Bianche diretto da Bruno Casoni.
Belli ed eleganti i costumi di Robby Duiveman, specie quelli femminili. Quanto alla messa in scena, Christof Loy ha mostrato grande attenzione nel suggerire la recitazione, pur con qualche eccesso di macchiettismo (vedi l'ubriaco che durante la festa vagola sul palco), ma assai meno a un elemento fondamentale della vicenda, la presenza della natura. Werther si sofferma a lungo a descrivere gli alberi, il ruscello, i prati attorno alla casa di Charlotte, mentre lo scenografo Johannes Leiacker ha previsto solo una enorme parete con una porta che fa appena intravedere un alberello. Che guarda caso diventerà alla fine l'albero di Natale. A parte l'assenza di un Eden ideale, che come il mondo dell'infanzia, dovrebbe rappresentare la purezza e l'ingenuità tanto amate dal protagonista, i problemi dello spettatore si aggravano nel terzo atto. Mentre Werther nota che la casa è rimasta qual era coi mobili, la biblioteca di un tempo, la scena è totalmente vuota, come per un avvenuto trasloco; c'è qualche libro sul pavimento e in bella mostra la cassetta con le pistole, pronte all'uso. Le discrepanze non migliorano con l'interludio sinfonico del quarto atto, che viene trasformato in pièce teatrale. Werther non si è rifugiato nel suo studiolo, ma è in casa di Charlotte (chiuso a chiave in modo che possa suicidarsi con calma, si sentiranno anche gli spari), mentre il marito legge le lettere d'amore di Werther alla moglie (è lei stessa ad averle consegnate in un gesto di stizza) e la sorella piagnucola appoggiata alla parete. L'interludio è lungo, con l'orchestra impegnata in una serie di citazioni che evocano l'ineluttabile percorso verso la tragedia e i due corpi estranei risultano di troppo. Verrebbe quasi il sospetto che sia stato Albert ad aver architettato tutto, ma forse gli si attribuirebbe troppa importanza. Oltre a questo, l'assenza di divani o almeno di una poltrona obbliga Werther ad alzarsi continuamente in piedi perché non sa bene dove mettersi ad agonizzare, a danno dell'intimità richiesta dalla coppia. Anche perché Albert e Sophie stanno sempre lì a disperarsi immobili nella controscena.
Al termine della serata applausi per tutti, con fragorosi apprezzamenti per i singoli interpreti da alcuni loro fans del loggione. Pubblico assai disparato, principalmente di turisti di passaggio.
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