Il ritorno della monumentale Aida da camera al Teatro La Fenice 

Nel teatro veneziano ripreso lo storico allestimento del 1978 firmato dallo scultore Mario Ceroli con la regia di Mauro Bolognini

Aida (Foto Michele Crosera)
Aida (Foto Michele Crosera)
Recensione
classica
Venezia, Teatro La Fenice
Aida
18 Maggio 2019 - 01 Giugno 2019

Era il gennaio del 1978 quando al Teatro La Fenice di Venezia vedeva la luce l’Aida dal forte segno iconografico di Mario Ceroli del tutto privo di esuberanze pompier di sapore areniano anche nei costumi dai tessuti preziosi firmati da Aldo Buti con gusto più tradizionale e di pari sobrietà. Lo scultore abruzzese disegnò una scena ispirata a una monumentalità “da camera”, razionalmente organizzata in una struttura lignea divisa in due piani sovrapposti: quello superiore riservato alle geometriche ritualità del potere, con un’iconografia egittologica classica resa con la pulizia dal segno quasi astratto delle sue celebri figure lignee, e quello inferiore destinato ai tormenti dei vinti. Il fortunato allestimento, ripreso già nel teatro veneziano nel 1984 e, fra le altre piazze, anche a Roma nel 2000, è tornato sulla scena del Teatro La Fenice rimesso a nuovo (con un rinnovato bel disegno luci di gusto pittorico di Fabio Barettin) ma senza mostrare i segni del tempo. Piuttosto ancorata a stilemi melodrammatici più convenzionali rimane invece l’assai meno coraggiosa regia di Mario Bolognini, fatta riviere per l’occasione da Bepi Morassi

Nel 1978 fu anche l’Aida di Giuseppe Sinopoli, che per quel debutto assoluto in un repertorio più tradizionale dichiarava già una visione molto chiara e decisamente orientata a una scelta intimistica per quel lavoro verdiano molto spesso sbilanciato sul piano della spettacolarità più esteriore: “Cosa vuol dire intimistico? Né piano, né fiacco, né debole. Vuol dire centrare tutto sul dramma dei personaggi. Questa è l’unica mia assonanza con questo termine. Intendo che anche i momenti corali devono essere visti in connessione col dramma dei personaggi.” Scomparso prematuramente Sinopoli (fra l’altro nel segno della stessa opera, che stava dirigendo sul podio della Deutsche Oper di Berlino nel 2001), sul podio si ritrova Riccardo Frizza, che sembra meno risoluto nell’imboccare una prospettiva strettamente intimistica, tranne forse per una certa atmosferica sensualità nel terzo atto, il più riuscito in questa ripresa, restando piuttosto legato ai canoni (e ai volumi sonori) del grand opéra, certamente non estranei a questo lavoro verdiano ma meno adatti a uno spazio contenuto come quello del teatro veneziano. Una scelta in parte condizionata dal casting, che ha in Francesco Meli un Radames di notevole vigore vocale e dallo squillo facile ma piuttosto monocorde sul piano espressivo. Le due rivali sono il soprano Roberta Mantegna, un’Aida di grande temperamento e ottime qualità vocali ma non sempre in pieno controllo dei propri mezzi, e il mezzosoprano Irene Roberts, un’Amneris genericamente corretta ma non particolarmente espressiva. Nel complesso, l’Amonasro di un interprete di grande e collaudata classe come Roberto Frontali emerge come il personaggio espressivamente più completo e vocalmente più consono al mondo musicale verdiano. Completano il cast solisti dalle sicure doti professionali come Mattia Dent (Il re d’Egitto), Riccardo Zanellato (Ramfis) e Antonello Ceron (Messaggero). Anche in questa occasione, di grande spessore la prova del Coro del Teatro La Feniceistruito da Claudio Marino Moretti e dell’Orchestra che può contare su strumentisti di ottimo livello. 

Sala gremita fino alle ultime repliche. Applausi generosi.

 

 

 

 

 

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