Il Ravenna festival è anche futurista

"Uccidiamo il chiaro di luna”

Recensione
classica
Ravenna si è innamorata del futurismo, quest'anno. E ha cominciato al Teatro Alighieri giovedì 1° giugno con un sostanzioso spettacolo intitolato "Uccidiamo il chiaro di luna". Il secondo capitolo andrà in scena il 21 giugno prossimo con la Vittoria sul sole (1913) opera di Krucenych, con scene e costumi di Malevic, opera ricostruita dal Museo Russo di San Pietroburgo, in occasione del centenario, e andata in scena solo alla Fondazione Louis Vuitton a Parigi prima di approdare a Ravenna.

vittoriasulsole

Una prima rappresentazione italiana, dunque, dell'opera chiave del futurismo russo che riuniva in una sola occasione la crème dell'epoca: il poeta Aleksej Krucenych, il compositore Michail Matjusin, e il celebre Kazimir Malevic, pittore, responsabile delle scene e degli esagerati costumi, che mette in scena anche il suo quadrato nero. L'originale capolavoro, di difficile definizione "due agimenti e sei quadri" recita il libretto, contribuirà anche alla nascita del suprematismo. Quasi profetica, anche dal punto di vista tecnologico, l'opera mette in scena l'annientamento la logica terrena, ovvero il Sole, preannunciando un futuro che supererà i limiti della comprensione umana. Incentrata su tutte le sfumature dell'assurdo, con personaggi-marionetta, dalle forme geometriche e non del tutto umane; la stessa squadratura angolosa che piacerà anche al futurismo italiano e che si è vista in "Uccidiamo il chiaro di luna".

Si possono comprimere tutte le suggestioni (visive, musicali-rumoristiche, interventiste, tipografiche) del futurismo in un solo spettacolo di danza? Come reggono la scena, coloro i quali i teatri volevano incendiarli o, tutt'al più, usarli come grimaldello per baruffe e zuffe? Un'accorta e acuta ricostruzione su più fronti e che coinvolge diverse professionalità riesce a vincere la sfida. Ma senza un incontro fortunato, probabilmente, questo spettacolo non si sarebbe mai visto in scena. Giannina Censi, unica ballerina futurista nota, insieme a Tullio Crali, evoca a Silvana Barbarini alla fine degli anni '70 i tempi dell'aerodanza, dell'aeroposia e dell'aeropittura (ovvero gli anni '30 del secolo scorso). La fascinazione non restò infeconda, e su indicazione di Marinella Guatterini, che ha ideato "Uccidiamo il chiaro di luna" e ne è la direttrice artistica, alla Civica Scuola di teatro Paolo Grassi cominciò un intenso laboratorio creativo capace di riflettere su tutte le componenti del movimento futurista. E dunque, Silvana Barbarini, coreografa, allieva della Censi, studiò i manifesti del futurismo - e in particolare quello della danza - cucendo uno spettacolo ad hoc, a puntate, che riassume molteplici suggestioni del movimento. Uno spettacolo che nasce nel 1997 e che continua a vivere, con nuovi interpreti, in altri teatri italiani. Apre la squadrata "Danza dello Shrapnel", in cui Depero avrebbe rivisto in movimento alcune fra le sue più celebri creazioni: ma dimenticatevi dei danzatori perché qui avanzano automi, taglienti, angolosi, pronti in seguito a sguainare un megafono. La guerra mette poi in scena, in danza, una battaglia, con tanto di mitragliette, avvicinamento dei nemici, e dispiegamento di caccia torpedinieri. Un doppio (triplo?) climax, anzi un crescendo, porta alla stupefacente "Danza dell'aviatrice", esaltazione del progresso tecnologico dell'aviazione, della lucentezza argentea del futuro, del corpo femminile scattante, rimodellato, asciutto, e modernamente inteso. L'esaltazione rumoristica, esplosiva e scattante, parolibera del celebre Zang Tumb Tumb (Il Bombardamento su Adrianopoli), nella revisione di André Laporte, qui diretta da Emanuele De Checchi, dà corpo a uno dei capolavori marinettiani che, pur nascendo testo, ha un disperato bisogno del palcoscenico, perché è scena, puro oggetto plastico. Lo spettacolo è musicalmente tutto scarno - efficace come un futurista pugno in faccia - come sola può essere una colonna sonora fatta dai piedi dei danzatori, dalle declamazioni di Marinetti e dai testi fonetici di Balla, condito dall'immancabile intonarumori di Russolo. Come se tutti questi episodi perfettamente in sé conchiusi non bastassero, il crescendo di intensità ci porta a un saggio di "danza tipografica", che condensa con efficacia la più pura ammirazione per la macchina e i caratteri mobili. Predilezione per la bellezza assoluta dell'aerodanza, certo, ma si sarebbe certamente in imbarazzo nel dover scegliere quale dei capitoli è il migliore: sono uno più bello dell'altro.

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