Il pubblico dispari

Kirika allo Spazio 211: da Smirne la nuova musica turca (e i suoi nuovi fan italiani)

Recensione
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Se “ascoltare Caikovskij sorseggiando una birra appena spillata, non ha prezzo” come ha scritto Carlo Lanfossi nel suo blog, le violazioni di codici consolidati da anni di pratiche sociali funzionano, per MITO, in diverse direzioni. Non solo quindi dal “basso” all’”alto” (vociante PalaIsozaki, Caikosvskij alla spina eccetera), ma anche in senso inverso.
Così capita di andare allo Spazio 211, a Torino, tempio cittadino dell’indie rock nella periferia di Barriera di Milano, e provare lo spaesamento che colse, probabilmente, il primo mercante veneziano alla corte ottomana di Mehmet Fatih II il conquistatore. Essendo il concerto previsto per le 22, arrivo intorno alle 22.20 (come da pratiche sociali consolidate fra i frequentatori del locale). È già cominciato il set della dj turco-tedesca İpek İpekçioğlu: propone una incredibile selection di vintage istanbuliano, electro, psichelia e altri suoni raramente ascoltati. Difficile stare fermi: la sala – dominata da una rotante palla da discoteca e con luci già abbassate – è quasi vuota, ma una catena di sedie (!) – “rubate” da fuori evidentemente: mai viste le sedie allo Spazio – chiude il dancefloor.
Inaudito! Come applaudire fra l’allegro ma non troppo e l’andante molto mosso! Anzi, molto peggio!
Sulle sedie, ecco il pubblico di MITO: età media sui 50, molti capelli bianchi. Un po’ di lato un distinto signore in giacca e cravatta si guarda intorno smarrito. Una tipica madamina torinese consulta metodicamente il programma di sala alla luce del cellulare. Sono lì, immagino, almeno dalle 9.30 e si stanno bellamente annoiando. Vengo anche redarguito da una signora perché – non appena inizia il concerto – oso prendere posto in mezzo al parterre: «Si sieda!» «Ma dove?!». Ad ogni modo, dalle 22.30 gli under 35 e riempiono la sala. Kirika, la band di Smirne protagonista della serata è un tripudio di ritmi dispari, baglama elettrificati, blues-rock e attitudini post-folk: una rivelazione. Il batterista Orçun Baştürk (già con i Replikas) pesta in dispari come un indie-rocker smaliziato; il gigantesco leader Salih Nazim Peker suona il baglamadaki (il piccolo baglama, liuto turco, neanche 40 centimetri di manico) con enormi dita da virtuoso. Passano con disinvoltura da tradizionali più acustici a furiose aperture distorte, quasi hardcore: il baglama elettrico, per molti legato all’interpretazione psichelica che ne danno i Baba Zula, diventa per Kirika uno strumento totale, capace di infiniti colori e usi. Un unico fallimento sulle spalle del gruppo: impossibile far battere le mani a tempo in 9/8 al pubblico italiano. Già solo per ottenere un discreto 4/4 ci vorrebbe la riforma del sistema scolastico, figuriamoci…
Man mano che l’ora si fa tarda e il tasso di elettrificazione della band cresce, la popolazione tende alle consuete percentuali anagrafiche. Alla fine – complici volume alto e tentativi di balli di gruppo – le sedie e i loro abitatori sono spariti. Torneranno?

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