Il nome della rosa è un'opera-oratorio
Alla Scala la prima mondiale di Filidei da Eco

Commissionata dalla Scala durante la gestione di Dominique Meyer e dall'Opéra National de Paris, coprodotta da entrambi i teatri e dal Carlo Felice di Genova, Il nome della rosa di Francesco Filidei ha debuttato ieri sera al Piermarini, diretta da Ingo Mertzmacher, con la regia di Damiano Michieletto. Quattro anni di gestazione premiati da un successo meritatissimo, tenuto anche conto che la trama del romanzo di Umberto Eco (1980), da cui è tratto il libretto firmato dal compositore e da Stefano Busellato (con la collaborazione Hannah Dübgen e Carlo Pernigotti), non offre granché come impianto drammaturgico. Per di più si tratta di un romanzo giallo, forma chiusa per antonomasia, che Filidei ha rinserrato con una struttura ancora più rigida in partitura. L'azione si svolge in sette giorni, tre nel primo atto, quattro nel secondo, suddivisi in due gruppi di dodici stanze, ciascuna intonata sui dodici suoni della scala cromatica, in un labirinto di rimandi musicali chiuso in sé stesso. Conoscendo Eco, forse si sarebbe divertito anche lui a mettere in duplici ceppi l'opera aperta che aveva a lungo teorizzato.
Questo accumulo di relazioni interne, di simmetrie, che Filidei ha tenuto a descrivere minuziosamente durante gli incontri prima del debutto, non ha tuttavia impedito un ascolto gradevole da parte del pubblico in sala. Ci sono cori, momenti sinfonici di comprensibilià immediata, moltissini recitativi accompagnati e poche arie. Da questa complessa struttura, prendono forma ammiccamenti al canto gregoriano, dissonanze, scale pentatoniche. rumori, stridori in funzione di quanto avviene in scena. L'orchestra riserva continue sorprese. Manca tuttavia una vera e propria tensione sul palco, perché le situazioni sono appena abbozzate, durano pochi minuti e hanno breve sviluppo. I recitativi, specie quelli legati all'inchiesta di Guglielmo, si riducono a mere didascalie. Mentre i rimandi fra i testi, le criptografie, l'enigmistica sapienziale, tutto il dotto armamentario che sulla pagina scritta del romanzo poteva affascinare, trapiantato in scena regge poco. Succede lo stesso con le battute di Salvatore, ex seguace di fra' Dolcino, che avrebbero meritato la verve dei gramelot di Dario Fo, o con le diatribe fra monaci, come quella sulla povertà di Cristo che per lo meno finisce in una rissa da stadio.
È merito della elegante regia di Damiano Michieletto l'aver dato corpo alla vicenda, complice la suggestiva scenografia di Paolo Fantin. Ad apertura di sipario una balconata dietro l'abazia sospesa, fatta di veli bianchi, ospita il coro; se ne vedono solo le teste o poco più, ma continui sono i lampi di luce riflessa provocati dalle pagine degli spartiti quando vengono girate. Questa felice invenzione, di grande teatralità, si ripresenta nel corso dello spettacolo e forse ne suggerisce una lettura, non stiamo assistendo a un'opera lirica ma a un oratorio nel quale sono incastonati dei siparietti o, per rimanere in ambito ecclesiastico, delle iconostasi. Alcune delle quali sono d'impatto immediato. Come per esempio il portale col bassorilievo dell'Apocalisse da cui escono corpi nudi maschili e con l'orchestra che stravolge delle cellule del Die Irae; il capolettera col caprone che suona il violino; le processioni degli animali colorati, che fungono anche da servi di scena per portar via uno dei cadaveri; il giovane Adso che si accoccola in grembo alla statua della Madonna. È il suo turbamento per la Ragazza del Villaggio a reggere il più saldo filo narrativo dell'opera. Dopo che il doppio di lei esce nudo da una gigantesca carcassa di cavallo e lui ne rimane sconvolto, s'innesca l'imponente finale del primo atto, con le citazioni del Cantico dei cantici e il bellissimo svanire del coro, che ricorda l'Ewig, ewig nel finale del Canto della Terra di Mahler. Sono numerosi i rimandi a compositori amati da Filidei, da Verdi a Puccini, alcuni palesi, altri fra le righe. Nel secondo atto è da segnalare una divertente sequenza di Salvatore sulle note del cucù e la drammatica evocazione di fra' Dolcino da parte di Remigio, oltre all'incendio finale di grande effetto per il pieno orchestrale, con Jorge de Burgos che si suicida divorando le pagine del libro che ha avvelenato. Rimane tuttavia l'impressione che nel complesso la struttura drammaturgica dell'opera sia claudicante, né sono sufficienti i ragionamenti di Guglielmo a tenere viva l'inchiesta sui morti amazzati. All'inizio si presenta come un medioevale Sherlock Holmes, ma poi si perde nelle visioni apocalittiche e nella numerologia, affidando l'intreccio alla sola capacità intuitiva dello spettatore.
La direzione di Ingo Mertzmacher è impeccabile per precisione e cordinamento coi cantanti, tutti di ottimo livello. In prima fila Kate Lindsey en travesti, perfetta nei panni di un Adso spaesato e curioso, e Lucas Meachem, autorevolissimo Guglielmo per voce e aspetto. Gli altri personaggi sono interpretati da quindici cantanti, fra questi Katrina Galka come Ragazza del Villaggio, Daniela Barcellona, con barba e pelata nei panni dell'Inquisitore, Tobero Frontali come Salvatore e Gianluca Buratto come Jorge da Burgos. Due i cori impegnati, quello della Scala diretto da Alberto Malazzi e le voci bianche dell'Accademia dirette da Bruno Casoni.
A fine serata più di dieci minuti di applausi per tutti in special modo per Filidei, che in questi giorni è festeggiato con molte sue composizioni nel programma di Milano Musica 2025. Gli sporadici i dissensi, subito spariti, fanno parte delle abitudini scaligere.
Se hai letto questa recensione, ti potrebbero interessare anche
Terzo e ultimo pannello del Trittico scomposto all’Opera di Roma, con la direzione di Mariotti e la regia di Bieto
Il capolavoro pucciniano in scena a Catania nell’unica produzione 2025 interamente del Massimo Bellini
Myung Whun-Chung torna alla Seconda Sinfonia di Gustav Mahler con i complessi del Teatro La Fenice