Il Messia di Christophe Rousset
La tappa romana della tournée degli English Baroque Soloists e Monteverdi Choir, che ha toccato anche Parigi, Milano e Londra
16 dicembre 2025 • 4 minuti di lettura
Roma, Parco della Musica, Sala Sinopoli
Messiah
14/12/2025 - 14/12/2025Eravamo abituati ad ascoltare il Monteverdi Choir e gli English Baroque Solists diretti da Sir John Eliot Gardiner, che li aveva fondati rispettivamente nel 1964 e nel 1978. Come è noto, il loro sodalizio si è interrotto bruscamente nel 2023, dopo un increscioso episodio di cui Gardiner si era reso protagonista, schiaffeggiando un cantante per un incidente di nessun conto (il cantante in questione era proprio William Thomas, il basso di quest’esecuzione del Messiah). Ovviamente la fine di una collaborazione semisecolare e il passaggio da un rapporto esclusivo con un solo direttore all’alternanza di diversi direttori ospiti, ognuno dei quali ha approcci ed esigenze diverse, non poteva non avere conseguenze, positive o negative che fossero.
Non posso nascondere che il loro concerto all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia - in programma il Messiah di Haendel diretto da Christophe Rousset - è stato per me una delusione. Gran parte del pubblico non è stato della stessa opinione e ha accolto con entusiasmo i musicisti già al loro ingresso in sala e li ha salutati con ancora maggiore entusiasmo alla fine del concerto. Di fronte a questa marea di applausi contano poco i commenti non privi di eiserve colti al volo durante l’intervallo e le poche defezioni verificatesi nella breve pausa tra la seconda e la terza parte dell’oratorio.
Cosa ha motivato la mia delusione? Già all’inizio qualcosa non andava. Nella Sinfony iniziale sia gli accordi in ritmo puntato della prima parte sia il fugato della seconda erano poco a fuoco: eppure è un’ouverture in stile francese e il francese Rousset dovrebbe conoscere bene quello stile e come realizzarlo. Nel prosieguo Haendel fa entrare uno alla volta i cantanti. Per primo Andrew Staples, che canta adeguatamente il primo recitativo del tenore; ma nella successiva aria i suoi vocalizzi sono piuttosto faticosi e sgraziati e soprattutto lo preoccupano talmente da impedirgli di dare a questo brano la giusta tornitura musicale e la giusta espressione. Poi il giovane basso William Thomas canta un ampio recitativo (tutti i recitativi sono “accompagnati” e non meno importanti delle arie) con voce dal bellissimo timbro e ottimo stile, ma come interprete è un po’ rigido, forse pensando (e probabilmente non ha torto) di dare così maggior autorevolezza alle parole affidategli in quest’aria da libretto e musica: sono nientemeno quelle del Lord of Hosts (il Dio degli Eserciti). A questo punto è la volta del contralto, che entra con un’aria, seguita, da un breve coro e poi da un recitativo e da una seconda aria. Ho un po’ di reticenza a parlare in termini negativi di una grande cantante qual è stata Sarah Connolly, ma la voce (che per altro non è mai stata la sua arma vincente) è ormai consunta, i fiati cortissimi, le agilità un mormorio confuso... mi pesa parlarne in questi termini e quindi qui mi fermo. Però nella seconda delle tre parti dell’oratorio ha un’aria non troppo esigente dal punto di vista della vocalità (“Thou art gone up on high”) ma che richiede un’intensa interpretazione: qui riconosciamo la Connolly d’un tempo. Ma è soltanto un lampo del suo passato splendore. Quando l’unico duetto di quest’oratorio mette insieme tenore e contralto, ciascuno con i suoi limiti, l’esito è alquanto deludente, per usare un eufemismo. Quarta tra i solisti ad entrare - per così dire - in scena è il giovane soprano portoghese Ana Vieira Leite: voce non strabordante, quindi perfetta per la musica del Settecento, timbro gradevolissimo, vocalizzi fluenti, che evidentemente lei considera - a differenza dai suoi due colleghi più anziani - come un’opportunità per abbellire la musica e non come un superfluo e fastidioso impiccio.
Ma torniamo a quello che - secondo la concezione moderna - è il maggior responsabile dell’esecuzione, ovvero il direttore d’orchestra. Rousset chiede all’orchestra e al coro un suono filologico: niente vibrato, niente diminuendo, niente crescendo. Non saprei se sia altrettanto filologica la piattezza che si diffonde su un capolavoro strabordante di vita, di forza, di musica, qual è da quasi tre secoli considerato il Messiah. A differenza di altri barocchisti, il direttore francese non adotta tempi velocissimi, alla Ridolini. Benissimo. Ma i suoi tempi sono metronomici N e soprattutto sono piattamente uniformi, non si ascolta mai un vero Adagio né un vero Allegro (sono costretto a generalizzare un po’, non potendo qui analizzare numero per numero queste due ore e mezza di musica) ma un continuo Andante, talvolta Poco andante, talvolta Andante con moto.
Non aveva a disposizione un coro e un’orchestra eccelsi. Probabilmente con la partenza di Gardiner anche i componenti dei due ensemble da lui creati sono in parte cambiati e non sono più al precedente livello d’eccellenza. I ventisette elementi dell’orchestra sono comunque pressoché impeccabili (ma per un musicista impeccabile non è il massimo, a mio modesto giudizio) mentre i trenta coristi sono non più che discreti e non in grado di rendere piena giustizia all’esuberante vigore dei cori haendeliani: ne ha risentito molto il celebre “Hallelujah”, mentre le cose andavano meglio nel coro finale “Worthy is the Lamb”.
In conclusione un’esecuzione di livello non più che discreto. Che una buona maggioranza degli ascoltatori (la Sala Sinopoli era quasi piena) si sia entusiasmata ascoltando questa musica è in fin dei conti normale e conferma l’amore del pubblico per il Messiah, unico capolavoro della cosiddetta musica barocca a non essere caduto nell’oblio a cui è stata a lungo condannata tutta la musica di quel periodo.