Il complesso di Elektra

All’Oper Frankfurt Claus Guth mette in scena l’opera di Richard Strauss come ritratto di una patologia

Elektra (Foto Monika Ritterhaus)
Elektra (Foto Monika Ritterhaus)
Recensione
classica
Frankfurt am Main, Oper Frankfurt (Opernhaus)
Elektra
19 Marzo 2023 - 05 Maggio 2023

Non siamo a Micene né in una macelleria (scelta piuttosto di frequente da regie anche illustri) nell’Elektra di Richard Strauss che il regista Claus Guth ha firmato per l’Oper Frankfurt. Gli ambienti immaginati dalla scenografa Katrin Lea Tag come i costumi di Theresa Wilson sono piuttosto quelli della nostra civiltà, asettici eppure disturbanti. Ci sono alte pareti foderate con carte da parati a strisce, porte con indicazioni luminose di uscite di sicurezza, sedie in serie: più che l’interno di un’abitazione, potrebbe essere il corridoio di un albergo o più verosimilmente di una clinica, magari psichiatrica. Appoggiata a una parete c’è una donna con segni evidenti di una sofferenza psichica: contorce la testa e la bocca, la scuotono dei tic, ma soprattutto ha delle visioni che manifestano un vissuto traumatico.

In questa sua Elektra, ultimo titolo di un compositore frequentato con una certa assiduità dal regista, Guth semplicemente toglie la cornice classica e rappresenta la protagonista nella nudità del suo male interiore. La chiave è quella del racconto di un’isteria che, freudianamente, nasconde un desiderio sessuale nemmeno troppo inespresso nei confronti del padre, il cui fantasma compare frequentemente in scena. Manifestazione evidente di un punto di vista fortemente soggettivo sono anche le pareti dello spazio nel quale Elektra è rinchiusa: si muovono e aprono dei varchi che danno accesso alle sue visioni. Tutti gli eventi narrati vengono filtrati della sua psiche, che confonde memoria e desiderio. È immaginato anche l’arrivo tanto atteso del fratello Oreste, lo strumento della tanto agognata vendetta, che le appare o bambino o come un’ombra senza nemmeno un volto, forse perché è davvero morto come annuncia la sorella Chrysothemis. Nel disegno scenico di Guth manca totalmente il sangue perché la vendetta non avviene se non nella mente della donna: non è di Klytämnestra ma della stessa Elettra il grido straziante che annuncia l’assassinio della madre, mentre la caduta di Aegisth è solo un incespico dal quale l’uomo in frack e cilindro azzurrini si rialza immediatamente come un maldestro artista di varietà. È vera invece la danza su quella musica che “esce da me stessa”, come fa dire Hofmannstahl alla sua protagonista, ma non è il culmine della pulsione (auto)distruttiva di una folle. È, invece, il festoso trenino degli altri pazienti con trombette e cotillon sotto una pioggia di coriandoli, che chiude questo esercizio radicale e intellettualistico di “Regietheater” con la morte della protagonista, come da copione, ma in un contesto del tutto straniante.

Si muove, invece, su binari più tradizionali la lettura musicale guidata con rodata professionalità da Sebastian Weigle in uno dei suoi ultimi appuntamenti da direttore musicale dell’Oper Frankfurt sul podio della Frankfurter Opern- und Museumorchester in grande forma. Punto di forza di questa produzione sono le prove di Aile Asszonyi, un’Elektra dalla voce ampia ed espressiva e perfettamente calata nel disegno registico, e di Jennifer Holloway, musicalissima Chrysothemis dalla vocalità radiosa. Vent’anni dopo la precedente Elektra vista a Francoforte, torna la protagonista di allora Susan Bullock come Klytämnestra, che fa leva soprattutto sulla trentennale frequentazione delle scene. Meno interessante il comparto maschile con l’unica eccezione di Kihwan Sim, che presta la voce a un tenebroso Orest senza volto. Fra i numerosi ruoli minori, si fa notare soprattutto la sorvegliante di Nombulelo Yende.

Assente da anni dal cartellone dell’Oper Frankfurt, questa Elektra è un successo al botteghino e in sala, dov’è accolta da generosi applausi e chiamate.

 

 

 

 

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