I due monologhi di Cocteau e Poulenc a Roma col Reate Festival
La rara Dame de Montecarlo e la ben più nota Voix humaine nell’esemplare realizzazione di Angela Nisi, Cesare Scarton ed Enrico Pagano
Francis Poulenc compose due lavori su testi del suo amico Jean Cocteau, La voix humaine e La dame de Montecarlo. Sono diversi, poiché il primo è una “tragédie lyrique” rappresentata nel 1959 all’Opéra Comique di Parigi e subito dopo alla Piccola Scala, l’altro un “monologo per canto e orchestra” eseguito in forma di concerto nel 1961 a Parigi, ma allo stesso tempo sono molto simili, perché li unisci la personalità dei due autori e anche l’argomento, trattandosi in entrambi i casi del monologo di una donna disperata e sull’orlo del suicidio. Ha fatto dunque benissimo il Reate Festival a unirle in un unico spettacolo della durata di circa un’ora, rappresentato due volte a Rieti e poi altre due volte al Teatro Torlonia di Roma, in collaborazione col Teatro dell’Opera, l’Accademia Filarmonica Romana e il Teatro di Roma.
I due monologhi erano uniti in un unico spettacolo in senso letterale, in quanto si susseguivano senza interruzione: prima la vecchia e nobile dama, che ha perso tutto al Casino di Montecarlo, si avvia verso il fondo del palcoscenico e si inoltra nel mare, che si apre e la sommerge, poi inizia senza pausa alcuna il monologo della giovane donna borghese, che in realtà è un dialogo particolarissimo, perché la voce dell’interlocutore - l’uomo che l’ha appena lasciata - non si sente mai, tanto che si può solo intuire che negli ultimi minuti all’altro capo del telefono non ci sia più nessuno e che la donna – Poulenc la indica semplicemente come Elle – è rimasta sola con la sua disperazione.
Lo scenografo Michele Della Cioppa ha disegnato per il primo monologo una serie di quadrati o più esattamente quadrilateri con i lati un po’ sghembi, proiettati a cannocchiale sul fondale, su cui nei momenti più drammatici viene proiettato il viso della protagonista, ripreso in primo piano, e alla fine il mare, in cui la vecchia signora conclude la vita. Questi quadrilateri sbilenchi, che danno l’idea di un mondo e di una psiche dissestati, tornano ingranditi nella Voix humaine ed incorniciano una stanza bianca e vuota, che materializza la solitudine interiore della protagonista. La costumista Anna Biagiotti ha ideato un elegante abito del primo Novecento per l’anziana nobildonna e una sottoveste e una vestaglia, candide come la stanza, per la giovane donna borghese. È una differenza non solamente di classe e di età ma di situazione psicologica: fino all’ultimo la vecchia signora ritiene d’appartenere ad una classe superiore, non si pente degli sperperi e affronta con un certo distacco e anche un filo d’autoironia la situazione in cui si è cacciata, mentre la giovane si dibatte disperatamente e perde letteralmente la bussola in una situazione che, a guardarla dall’esterno con un certo distacco non è poi così disperata e irrimediabile.
Scene e costumi sono l’ideale cornice per la regia di questi due monologhi, molto impegnativi e delicati anche ma non soltanto per il rischio di diventare statici. La regia di Cesare Scarton è letteralmente prodigiosa. Sottilissima è l’ironia con cui viene presentata la vecchia (non poi tanto vecchia: l’età non è determinante) nobildonna della Dame de Montecarlo. Non concede un attimo di respiro il dramma della protagonista della Voix humaine. Questo dramma vissuto nella propria mente e nelle proprie viscere da una donna abbandonata (forse si può trovare un lontanissimo precedente, mutatis mutandis, nelle varie Arianne barocche, che però non avevano il telefono e cantavano quand’ancora non era nato Freud) è stato espresso questa volta senza atteggiamenti melodrammatici ma con una continua immedesimazione nei suoi alterni stati d’animo.
Non è assolutamente facile tenere la scena per circa un’ora, sola sul palcoscenico, senza che nulla succeda all’esterno del proprio cuore o mente o psiche, che dir si voglia. Lo fa magnificamente Angela Nisi con l’aiuto determinante della regia e della direzione d’orchestra. Al di là dello sforzo fisico non indifferente di stare sola sul palcoscenico per un’ora, senza un attimo di respiro, non è un’impresa da poco interpretare due personaggi simili ma diversissimi come la vecchia dama delusa e distaccata dal mondo, che sceglie di morire senza tanti drammi, e la giovane disperatamente attaccata al suo perduto amore, corpo e anima. La Nisi sta in palcoscenico splendidamente, esprimendo il dramma di queste due donne con la mimica ma soprattutto con gli sguardi: i suoi occhi sono veramente lo specchio del suo animo. L’essere un lirico leggero, che ha Mozart come suo faro, le dà una duttilità e una continua varietà di sottili sfumature rispetto ai soprano drammatici che solitamente cantano la Voix humaine, ma questo non sarebbe sufficiente senza la sua sensibilità e intelligenza d’interprete. Un’interpretazione superlativa, non esistono altri aggettivi per definirla.
A rendere possibile una simile interpretazione contribuiscono le piccole dimensioni del teatro e dell’orchestra: lo stesso Poulenc in una sua lettera indicava come dimensioni ideali dell’orchestra poco più di una trentina di strumentisti, esattamente quanti erano quelli della Roma Tre Orchestra, formata in maggioranza da giovanissimi, mescolati ad alcuni musicisti più esperti, che sicuramente hanno contribuito alla coesione e precisione dell’insieme. E sul podio stava il giovane Enrico Saverio Pagano, che ha dimostrato maturità e padronanza fuori dal comune, dirigendo con precisione e oggettività novecentesche ma anche con intuizioni sottilissime e penetranti nel sottolineare di volta in volta con piccoli accenni l’ironia, la sensualità, l’ambiguità, la follia, la crudeltà, la tenerezza con cui Poulenc (e Cocteau) raccontano i tormenti delle due protagoniste. Caloroso il successo e più che meritato.
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