Glass nel dolore dei barbari

In prima mondiale a Erfurt, in Germania, la nuova opera di Philip Glass, tratta dal romanzo "Waiting for the Barbarians" dello scrittore sudafricano John M. Coetzee

Recensione
classica
Theater Erfurt Erfurt
Philip Glass
10 Settembre 2005
"Waiting for the barbarians", il raccontone dello scrittore sudafricano John M. Coetzee, è del 1980 (tradotto da Einaudi nel 2000): il Premio Nobel per lui è arrivato nel 2003. La storia è violentissima, leggerla è dura: ai confini di un Impero occidentale di un imprecisato inizio Novecento (ci sono carrozze, fucili, cavalli, avrà letto "Il deserto dei Tartari" di Buzzati, Coetzee?), un magistrato sfinito e pigro e pacifico e pacifista amministra la giustizia in un villaggio contadino; un giorno, dalla capitale, arrivano due bastardi dei servizi segreti con gli occhiali, e prendono innocenti, li torturano, uccidono, arrestano altri innocenti pescatori e nomadi, donne e bambini ("Il processo" di Kafka invece l'avrà letto, Coetzee) perché la capitale ha deciso che i Barbari stanno per attaccare, e quindi sarà l'Impero ad attaccare per primo. Philip Glass si è innamorato di questo soggetto – ci ha detto – ben prima che cadessero le torri di New York e che superarmati soldati americani andassero ai confini dell'Impero, in Iraq, a bombardare e torturare i "barbari". Ha faticato molto a trovare un teatro che volesse allestire un soggetto tanto imbarazzante. Chistopher Hampton (drammaturgo, inglese, lo sceneggiatore del film "Les liaisons dangereuses" di Stephen Frears) gli ha scolpito un libretto scandito in scene minimali, terribili (sembra un "Woyzeck" di Büchner per un "Wozzeck" di Berg) con decine di frasi da epigrafe, come "Pain is Truth. That is one of the few certainties of life" o "Pain is only pain, nothing is worse than what we can imagine". Nel nuovissimo Theater Erfurt (in Turingia, cuore antico e fresco di verde e d'acque della Germania), disegnato dall'architetto Jörg Friedrich due anni fa, il sovrintendente (svizzero di formazione ginevrina) Guy Montavon ha firmato per la nuova opera del sessantottenne Philip Glass una regia sobria, che non calcava sugli orrori raccontati, e preferiva tener forti i sogni del Magistrato, che attraversa quell'annus horribilis per ritrovare poi la pace solitaria in un allucinante orizzonte di neve rosseggiante di sangue invano sparso: Richard Salter ha cantato quella lunghissima, faticosissima parte con una grande, stanca energia, diretto da un esaltante Dennis Russell Davies. Glass crea per il coro dei Barbari "arie" imponenti, drammatiche, muri di sangue e di brividi in una partitura che si trascina in immane dolore e epica stanchezza; racconta questa storia come una delle sue colonne sonore (le sue preferite, "Kundun", "The Hours", perché i produttori l'han lasciato lavorare coi registi). Il seme della inorridita consapevolezza sparso da Coetzee è sceso glassianamente nel solco del melodramma: guardatevi dagli occhiali scuri in giro per il mondo, dagli agenti Smith di "Matrix" pronti a storpiare la vita a misura del loro incubo organizzato.

Regia: Guy Montavon

Scene: George Tsypin

Costumi: Hank Irwin Kittel

Direttore: Dennis Russel Davies

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