Gibboni all'Olimpico di Vicenza

Il vincitore del "Paganini" con l'Orchestra di Padova e del Veneto

Gibboni all'Olimpico di Vicenza (Foto Antonio Magazzino)
Gibboni all'Olimpico di Vicenza (Foto Antonio Magazzino)
Recensione
classica
Teatro Olimpico di Vicenza
Gibboni e l'Orchestra di Padova e del Veneto
29 Maggio 2022

«Fu lo spettacolo a dir vero meraviglioso. Non vi fu persona che non ne restasse commossa». Questo è il commento del letterato e diplomatico Filippo Pigafetta all’inaugurazione del Teatro Olimpico di Vicenza. Era il 3 marzo 1585 e andava in scena l’”Edipo re” di Sofocle.

Lo stesso merita dire per quanto si è ascoltato domenica scorsa alle Settimane Musicali, quando sul palco del mitico anfiteatro del Palladio è salita prima l’Orchestra d’archi di Padova e del Veneto, con l’esecuzione della Suite “Holberg” di Grieg, e poi lui, che con il violino «canta come un angelo», per riprendere quello che Schubert ha detto di Paganini. Lui è Giuseppe Gibboni, talento a dir poco, genio dell’archetto, brillante ventenne che ha vinto il Concorso Paganini 2021 ed è impeccabile in ogni nota che esegue. Lo ha dimostrato, anche stavolta, con padronanza assoluta e altrettanta umiltà. Andiamo in ordine.

Un programma storicamente à rebours, dall’autore che con gli ultimi anni di vita è entrato nel Novecento, al più Romantico, che con le sue quattro corde ha dettato la strada ad un’intera generazione, soprattutto di pianisti che hanno visto in lui il modello da imitare. E nel mezzo c’è un polacco, noto in Europa e morto in Russia. Sono nell’ordine: Edward Grieg, Niccolò Paganini ed Henryk Wieniawsky.   

Un concerto cominciato tra le atmosfere d’acquarello in stile antico di un’opera nata per pianoforte, ma che maggiore fortuna riceve oggi nella versione per archi dello stesso autore, il padre de “Il mattino”, che dipinge guardando al Barocco il drammaturgo Ludvig Holberg. In tempi di Partita: Praeludium, Sarabande, Gavotte, Air e Rigaudon, tra danze su ritmi di fanfara, un andante espressivo, un’aria lirica, contemplativa, e reminiscenze franco provenzali nello stile personale di Grieg che rilegge il Settecento, l’Orchestra ha dato prova di gusto e raffinatezza senza la necessità di un direttore, riuscendo con personalità a coniugare due secoli, il XVIII ed il XIX, come nelle intenzioni di chi quest’opera, piena di dottrina ma soprattutto di gusto, l’ha scritta.

Poi lui, giovane d’età, classe 2001 ma maturo e compiuto interprete, Giuseppe Gibboni con il suo Stradivarius del 1694. Con un cambio d’ordine rispetto a quanto riportato in programma, ha attaccato dal “Concerto in si minore op. 7” La campanella di Paganini, dimostrando subito che non c’è moto d’arco e di dita che non padroneggi alla perfezione, con altissimo gusto, intonazione aurea, portamento e interpretazione personalissime, senza copia. Gibboni “non lo si ripete”, è unico, e l’orchestra lo ha ben sostenuto, assecondando in questo capolavoro tutto il suo estro, che non è solo virtuosismo assoluto. Nelle “Variazioni su un tema originale” di Wieniawsky lo stesso, in questa composizione che rende sui generis la tecnica della variazione, dove il soggetto in maggiore, tre volte variato, è preceduto da un’introduzione in minore con elementi di cadenza, che riappare prima del finale in valzer brillante.

La libertà di Giuseppe Gibboni, come questo lavoro, è stata in ogni cosa: negli accordi, nelle ottave, nelle condotte melodiche, in tutti gli staccati e nelle altre peripezie, negli armonici, in ogni prodigio. Atipico, straordinario. È stata l’essenza di un’esecuzione rivelata, come nel “Capriccio op. 1 n. 24” di Paganini secondo la trascrizione di Giedrius Kuprevičius.

E poi i bis, tra lunghi applausi e ovazioni del pubblico in piedi: “Capriccio n. 5”, l’Adagio in sol minore dalle “Sonate per violino solo” di Bach, pura commozione, ed il “Capriccio n. 21”.

In questa stupefacente serata, come scrisse un anonimo a proposito di Paganini di cui Gibboni è l’erede: «Il pubblico passò dal silenzio all’euforia».

 

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