Fillippo Gorini per Milano Musica
Applaudito debutto al Teatro alla Scala per il ventottenne pianista brianzolo con musiche di Kurtág, Ogura e Schubert
Per la trentatreesima edizione del festival milanese che quest’anno reca il titolo “L’ascolto inquieto”, Filippo Gorini, Premio Abbiati della critica musicale italiana come miglior solista dell’anno 2022, ha eseguito un programma bifronte, con una selezione di brani da Játékok di György Kurtág, l’ultima Sonata di Franz Schubert e, a far da cesura, la prima esecuzione di Sillage de lignes della giovane compositrice giapponese Miharu Ogura.
Fin dalle prime battute di Kurtág è apparsa evidente la ricerca di un suono che potesse dar conto di tutte le sfumature della partitura. Gorini ha assemblato un bouquet raffinato a partire dal vasto materiale disponibile (sono dieci i libri di Játékok, otto quelli per pianoforte solo) offrendone una silloge coerente. La scrittura di questi brani, perlopiù aforistici, è così impregnata di suggestioni, spesso lievi e appena accennate, che anche le citazioni più evidenti possono sfuggire a un ascolto distratto. Assorto e concentrato, il giovane maestro ha guidato l’attenzione del pubblico sulle lunghe risonanze, sul silenzio, sul controllo della tastiera. I rimandi, allora (il tema del preludio debussiano in La fille aux cheveux de lin - enragée, il Waltz con il tema sbriciolato su altezze diverse, l’Hommage à Schubert dagli accordi impalpabili, la Fanfare to Judit Maros’ Wedding, lo struggente Márta ligatúrája) sono emersi con l’apparente naturalezza che è spia di un lungo confronto con il testo.
Sillage de lignes, lavoro del 2022 della ventisettenne Miharu Ogura, ha chiuso la prima parte del concerto. Nella scrittura di questo brano si riscontra la libertà di linguaggio di un’artista che, come tanti della sua generazione, si è definitivamente liberata da automatismi referenziali. Per stessa ammissione della compositrice, che abbiamo potuto incrociare al termine del concerto, la volontà non è di rompere con il passato ma piuttosto di inserirsi sul solco della tradizione, potendone assimilare gli assiomi o prenderne le distanze, a piacimento. Le linee a cui allude il titolo diventano così direzioni prospettiche piuttosto che cornici, generatrici di una trama sonora brulicante che Gorini ha eseguito con efficacia. Meritati gli applausi, per l’interprete e la compositrice.
La seconda parte del concerto è stata dedicata alla grande Sonata D 960, ultima nel catalogo schubertiano, che rappresenta per le sue caratteristiche un unicum nella storia della letteratura pianistica. La sua architettura si dipana ad anelli concentrici, conducendo a una sorta di vertigine nell’ascolto, con il sublime Andante sostenuto che si staglia sugli altri movimenti e che inevitabilmente spinge al confronto tra le interpretazioni dei più grandi pianisti del presente e del passato. È un’opera che può intimorire, per le insidie labirintiche e per la necessità di un controllo ferreo della tecnica che non vada a discapito dell’arcata del racconto. La lettura di Gorini si è dimostrata solida e convinta, ed è apparso evidente come, in dialogo ideale con Kurtág, abbia scelto di enfatizzare aspetti crepuscolari, con raffinatezza timbrica ma senza mostrare i muscoli, inanellando con sapienza le sorprese armoniche di questa pagina mirabile, restituendo il senso di abisso che la pervade ma senza indulgere nella rassegnazione.
Filippo Gorini deve la sua formazione, tra gli altri, a Maria Grazia Bellocchio e ad Alfred Brendel, entrambi presenti al concerto scaligero, in quello che agli occhi del cronista è sembrato quasi un passaggio di testimone. Nello scatto che ritrae sul palco Gorini e Ogura, infine, l’immagine di una gioventù forse non del tutto consapevole di star gettando un ponte tra il passato e il futuro della musica.
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